79 – L’incredulità del credente (25.09.05)

Il pensiero della settimana, n. 79

Nel vangelo di Marco vi è un episodio in cui un padre supplica Gesù di guarire il proprio figlio preda di uno spirito muto che, quando entra in azione, dà luogo a manifestazioni che i moderni definirebbero epilettiche: il ragazzo schiuma, digrigna i denti, si irrigidisce. Il padre chiede aiuto a favore di una creatura incapace di farlo in proprio. Il vangelo è pieno di grida di chi chiede la guarigione per se stesso. Non però qui, quando il soggetto è colpito nella sua stessa capacità di domandare. Il mutismo del figlio obbliga il padre a parlare. Impotente a soccorrere in proprio, il genitore chiede aiuto ad altri. Prima si rivolge ai discepoli di Gesù ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro che risponde duramente, tacciando di incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: «“Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede”. Il padre del fanciullo disse ad alta voce: “Credo, aiuta la mia incredulità”». Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione (Mc 9,14-29).

Qualcuno ha messo in rilievo che, situato in questo contesto, l’atto di risanare compiuto da Gesù è espressione della sua stessa fede. Se i discepoli non hanno potuto guarire a causa della loro incredulità (cfr. Mc 9,28-29) e Gesù invece risana, ciò significa che in lui è fortemente presente quanto nei suoi seguaci è latitante: la fede. Si può aggiungere un’ulteriore suggestione: è stata la poca fede dei discepoli a far sì che il padre si incontrasse direttamente con il Maestro. Vista in questa luce l’incredulità dei suoi seguaci diviene, per paradosso, una via per sospingere altri fino a Gesù. Se i discepoli avessero guarito il fanciullo non ci sarebbe mai stato alcun dialogo tra Gesù e il padre del ragazzo. In un certo senso ciò vale per la testimonianza di tutti i credenti: quanto conta è far giungere gli altri a Gesù Cristo non a se stessi. Questo itinerario a volte può compiersi pure a motivo della scarsità della propria fede.

La non fede (apistia), o la «poca fede» (oligopistia) (espressione quest’ultima cara a Matteo), sono esperienze costitutive del credente e del discepolo. Affermare che tutto è possibile a chi crede fa sì che la non fede divenga componente interna all’atto di credere. L’aver alzato al massimo la forza e la portata della fede fa sì che l’incredulità sia presenza ineliminabile dell’esperienza del credente. Le ferite non sanate del mondo sono prova inconfutabile della nostra  mancanza di fede. La non fede o la poca fede sono compagne fedelissime del credente.

«Tutto è possibile a chi crede». La possibilità è un orizzonte dato. È quanto c’è di più iniziale. Quando compiamo una scelta decidiamo tra varie possibilità. Così facendo ne lasciamo cadere, per forza di cose, alcune. La sfera del possibile ci travalica e trascende sempre; essa dice che la nostra fede è piccola. La fede comporta affidarsi a colui per cui ogni possibilità è effettivamente possibile. Questa stessa definizione consegna la fede a un ambito eminentemente pratico. L’atto del credere non sta nel riconoscimento di una verità affermata come tale ma indimostrabile razionalmente; esso si esplica nella possibilità di modificare la realtà. La forza della fede si manifesta nella clausola posta dal vangelo a  commento di molte guarigioni: «…la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (Mc 5,34). Il risanamento dipende da un credere tutto collocato entro una dimensione pratica. Non sono però  azioni che si possono compiere in proprio.  Non si tratta di pervenire a una meta che siamo in grado di conseguire in virtù di quanto è effettivamente in nostro potere. Non la si può raggiungere attraverso l’azione o la tecnica, vale a dire coi mezzi consueti grazie ai quali si interviene sulle realtà modificabili.

Il fatto che a Dio nulla sia impossibile (cfr. Lc 1,37) trova corrispondenza nella fede. Tuttavia ciò costituisce nel contempo la massima sfida per il credente. Aver fede è essere convinti sia che a Dio e solo a lui nulla è impossibile sia che dal nostro credere dipenda il dischiudersi o meno di una determinata possibilità. L’apistia  si  colloca in una fede che, lungi dal presentarsi in prima istanza come dono di Dio, si prospetta come un atto umano che cerca di sforzare i confini del possibile. ‘Nulla è impossibile a chi crede’ sarebbe espressione idolatrica se non fosse sorretta dalla presenza del non credere visto come momento intrinseco della vita di fede. Perché il credere sia davvero tale non vi  può essere alcuna simmetria tra «nulla è impossibile a Dio» e «tutto è possibile a chi crede». Nella fede è sempre contenuta una dislocazione. Si è sicuri della potenza del credere solo nel momento  in cui si afferma la propria impotenza e ci si affida ad Altri. La forza della fede comporta riconoscere di non riuscire a ottenere in proprio quanto si desidera.

La definizione negativa del non credente (apistos), del poco credente (oligopistos), del cuore lento e tardo a credere ha ragion d’essere solo all’interno dell’orizzonte della fede. Le cose non stanno così quando ci si propone di attuare un dialogo tra credenti e non credenti. In tal caso quest’ultima espressione risulta impropria in ragione del ricorso a una definizione negativa di una delle due componenti. In tal caso  si è di fronte alla volontà di qualificare l’altro a partire da se stessi. Anzi, a volte l’operazione risulta ancora più autocentrata. Si dichiara infatti che il non credente, in fin dei conti, non può essere davvero tale. Lo sappia o no anche in lui alberga un po’ di fede. Lo si potrebbe definire un credente anonimo. Così facendo lo si rende una propria copia sbiadita. La sterilità o quanto meno la scarsa incisività di molti dialoghi dipende da un, più o meno inespresso, intento di colonizzazione dell’altro compiuta dai credenti. Esso si rivela tale non tanto per il dispiegarsi di un’esplicita volontà di predominio nei confronti dell’interlocutore quanto per una più sottile tentazione di vedere l’altro nello specchio della propria immagine.

Il credente quando etichetta come non credente la persona che gli sta davanti relega all’esterno quanto è a lui interno:  l’incredulità. Il modo più autentico di dialogare con il non credente è – per riprendere una  prospettiva del card. Martini – di farlo con il non credente che è in noi. Negli altri casi il nostro interlocutore va accolto innanzitutto come una persona dotata di convinzioni che, siano salde o instabili, sono comunque diverse dalle nostre. Definire gli altri prima di tutto come non credenti, vale a dire appoggiarsi su una negazione, è, fin dall’origine, operazione discriminante. Al contrario il dirsi della non fede (o della poca fede) all’interno del credere equivale a esprimere un giudizio nei riguardi di noi stessi e non nei confronti di chi si colloca fuori dal cerchio della fede.

Ribadire  la specificità della propria fede e dell’atto di affidarsi a Gesù che passa e risana è meno discriminante nei confronti del prossimo del rendere il credere un orizzonte generico che tutto ingloba. Quanto in ogni caso va respinto con decisione è la volontà di definire l’altro a partire da se stessi. L’apistia del credente è momento interno alla fede che mette in discussione prima di tutto lui stesso. L’incredulità della persona di fede la pone però anche nelle condizioni di comprendere i motivi dell’altro. Ciò avviene nel momento in cui l’incredulità consegna la fede all’impotenza. Ripetere con il salmista e con Gesù in croce: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Sal 22,2; Mc 15,34; Mt 27,46) è, prima di tutto, atto interno alla fede che dice al Signore il proprio abbandono. Tuttavia essa è anche un’esperienza che può far comprendere perché nell’animo di altri il fatto che Dio abbandoni si sia mutato nella scelta di abbandonare Dio alla notte della non esistenza o all’incerto crepuscolo del forse.

Piero Stefani

 

 

 

 

79 – L’incredulità del credente (25.09.05)ultima modifica: 2005-09-24T09:10:00+02:00da piero-stefani
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