60 – Morire nell’era tecnologica (03.04.05)

Il pensiero della settimana, n. 60 

In questi ultimi giorni si è riproposto in modo ineludibile il problema di cosa significhi morire in un’epoca in cui le possibilità di prolungamento dell’esistenza biologica sono andati molto al di là di quanto fosse ipotizzabile fino a qualche decennio fa.

 Da sempre l’umanità si è trovata di fronte alla necessità di valutare atti volti a interrompere in modo artificiale la vita. Questo spezzare il filo dell’esistenza si chiama uccidere. L’essere vivente è uccidibile ed è, di fatto, molto spesso ucciso. Questa possibilità viene interdetta da un imperativo: non uccidere. Esso non è mai stato assoluto. L’azione è orribile, ma vi sono circostanze in cui è lecito farlo. La legittima difesa è uno di questi casi. Essa in effetti comporta un’offesa. Visto che un’uccisione in ogni caso ci sarebbe, è meno peggio che resti soppresso un assassino che una potenziale vittima innocente. Una persona posta di fronte al suo uccisore può rinunciare, in proprio, al diritto di sopravvivere. L’etica però vieta di compiere simile scelta in nome altrui. Dove c’è il terzo non è dato assumere la nonviolenza in modo integrale. Visto che di fatto la violenza sta già dispiegando le sue nere ali, quanto è richiesto è di trovare una forma per regolamentarla, non di negarla in toto.

È invece  tema assai recente, ma non meno inquietante, quello di stabilire i limiti del prolungamento biologico dell’esistenza. Da sempre piantare un coltello nel petto altrui è più semplice che suturare la ferita. Per tanto tempo gli sforzi furono tutti concentrati sulla difensiva, vale a dire si incentrarono sul tentativo precario di contenere gli effetti devastanti avuti su di noi da una violenza perpetrata da un altro uomo e soprattutto dalla natura. Negli ultimi decenni la difesa si è sempre più rovesciata in attacco. L’artificiale ha reso possibile quanto in natura è escluso. In quest’ambito rientra, per esempio, il prolungamento di uno stato vegetativo permanente. In questo ‘mondo alla rovescia’ il posto dell’assassino è occupato dai medici e quello della vittima dal malato terminale. Ma anche qui, in modo sempre più frequente, esiste il terzo. Quest’ultimo non è più colui a favore del quale bisogna decidere (uccido l’assassino perché il terzo, la vittima, viva), al contrario egli si presenta come chi, spesso all’interno di grovigli di competenze conflittuali, è chiamato a scegliere per altri. È il terzo a decidere se staccare o mantenere attaccata la spina.

Di fronte a questa situazione paradossale si cerca di dar spazio alla soggettività della ‘vittima’ o ipotizzando la sua volontà virtuale (‘aveva detto che non avrebbe mai voluto…’)  o appellandosi a ‘testamenti biologici’ che stabiliscono le proprie volontà antecedenti una propria ‘prima morte’ costituita da una sopravvivenza artificiale. La componente prospettica della volontà, tipica di ogni testamento, ha diritto di essere esercitata anche nei confronti di una condizione in cui la volontà stessa viene a cessare  pur continuando la vita biologica. La propria volontà però può mutare, i testamenti si possono riscrivere: l’ultimo annulla i precedenti. Perciò entra in scena di nuovo il terzo che qui assume la veste di chi deve stabilire se la non volontà e la non coscienza della ‘vittima’ sia una condizione permanente. Di nuovo tutto si aggroviglia in una serie di competenze incrociate.

Da sempre si discute sui limiti del non uccidere, non  sarà facile stabilire quali siano quelli relativi al prolungamento della vita. Resta comunque certo che se si concede a una persona il diritto di essere ucciso piuttosto che uccidere, nel ‘mondo alla rovescia’ della tecnologia si deve lasciare alla ‘vittima’ il diritto di vivere la propria morte. Occorrerà perciò giungere a esprimere una valutazione negativa nei confronti dei tentativi di prolungare in modo illimitato l’esistenza biologica, quasi che quest’ultima fosse in se stessa di massimo valore (materialismo puro).

Giovanni Paolo II, lottando vanamente qualche settimana contro il suo ricovero al Gemelli e riuscendo a scongiurare nelle sue ultime ore di vita un ennesimo trasferimento in ospedale, ha oggettivamente dato un valore di magistero alla propria morte. Egli  ha in tal modo confutato la spietata certezza pseudo-dottrinale che la volontà di Dio si presenti sotto le vesti antagoniste agli sforzi dei medici, quasi che essa si affermi soltanto là dove le terapie falliscono. Per un credente dovrebbe essere ovvio che la vittoria sulla morte stia nella fede e non nella tecnologia. C’è però voluta la morte di un papa per ricordarlo. Forse ciò è avvenuto anche contro alcune delle prese di posizione da lui stesso espresse in precedenza. Tuttavia questa certezza vale anche per il vescovo di Roma:  l’esistenza, nel suo estinguersi, contiene un sigillo di verità maggiore di ogni dottrina.

Piero Stefani

 

 

P. S.  Qualche lettore ha auspicato che il dialogo del pensiero n. 59 si prolunghi: ci sono forti probabilità in tal senso.

60 – Morire nell’era tecnologica (03.04.05)ultima modifica: 2005-04-02T10:45:00+02:00da piero-stefani
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