55 – Nomi e identità (27.02.05)

Il pensiero della settimana n.55

 

A gennaio di quest’anno i vescovi tedeschi hanno steso un documento per ricordare i sessant’anni della liberazione di Auschwitz-Birkenau, il nome simbolo per dire lo sterminio nazista (cfr. Regno-doc., 3, 2005. pp.70 s.). In esso è contenuta anche l’ammissione della propria impotenza linguistica: «Non abbiamo ancor trovato una parola tedesca adatta per definire questo crimine che in lingua ebraica viene detto Shoah».

 Ancora più di recente sulle pagine del quotidiano Le Monde si è assistito a un acceso scambio di pareri a proposito di questo stesso tema. Henri Meschonnic, poeta, linguista e traduttore della Bibbia, si è scagliato contro l’utilizzo di questa parola ebraica per designare la «soluzione finale». Le argomentazioni addotte sono in sostanza due: non bisogna pronunciare in lingua ebraica la parola simbolo dell’annientamento di vittime frutto di un atto interamente imputabile agli «igienisti razziali»; inoltre occorre prendere le distanze da un «culto della memoria» troppo indifeso rispetto all’errore (denunziato anche dal grande Leibowitz) di rendere la Shoah la questione centrale di tutto ciò che riguarda l’ebraismo.

Sulle pagine dello stesso giornale l’impiego della parola Shoah è stato invece difeso da Claude Lanzmann, l’autore del fondamentale film-documentario che ha dato un forte contributo a imporre l’uso di questo termine e a porre in declino (almeno in Europa) l’inadeguata espressione di Olocausto. Lanzmann ha dichiarato che mentre lavorava alla sua grande impresa per riferirsi all’«evento» impiegava la più generica ed evocativa delle parole, dicendo semplicemente «la Cosa». Poi udì il termine «Shoah». Non parlando ebraico non ne afferrò il significato originario, «catastrofe». La parola gli risultò evocativa proprio perché non la comprendeva. La scelse per questo: gli occorreva una parola incomprensibile per dire l’incomprensibile.

La singolare vicenda di trovare termini per esprimere un inaudito che è diventato incancellabile (cfr. A.V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino 2001) è in se stessa eloquente. Il popolo su cui pesa la responsabilità più grave non trova nella propria lingua la parola per esprimerlo. Non si possono ripetere le qualificazioni naziste, ad esempio «Endlosung» («soluzione finale») e non si riesce a trovare un’espressione che racchiuda in un solo lemma l’orrore, la condanna, la memoria e il pentimento. Sull’altro versante vi è chi è diventato insofferente per l’enorme spessore identificatorio attribuito alla Shoah. La parola pronunciata da parte delle vittime sembra legare queste ultime a una condizione insuperabile e pericolosamente sguarnita di fronte all’insidia di sostenere che la propria identità ebraica dipenda, in ultima istanza, dall’esistenza stessa dell’antisemitismo.

Nel mondo contemporaneo lo spettro che sia stato l’antisemita a creare l’ebreo è stato evocato a più riprese. Lo fece Sartre per denunciare la criminale volontà antisemita di creare discriminazioni là dove vi era uguaglianza. A parti rovesciate ciò è avvenuto anche all’interno del mondo ebraico per denunciare l’insufficienza di chi si sente ebreo solo in nome delle persecuzioni subite, senza saper proporre in positivo altro che evidenziare la volontà  di non essere più perseguitati. Questa tendenza  si manifesta nella spinta, più comprensibile che condivisibile, di voler esasperare ogni reale o presunta manifestazione di avversione antiebraica  come pericoloso innesco di incontenibili esplosioni di violenza.

Queste oscillazioni sono in realtà le facce di un problema insolubile in virtù del suo stesso essere posto: si tratta della questione dell’identità. Una volta che la si avanza diventa  un vicolo  cieco da cui non si esce. Se si aderisce a una comunità e se ne condividono le visioni di fondo l’identità viene da sé, mentre se la si persegue in modo diretto essa è sfuggente. Quando la domanda interna «chi è ebreo» è articolata in modo identitario dà per forza luogo a un pulviscolo di risposte ognuna delle quali può rivendicare a se stessa di avere voce in capitolo. Per questo motivo allorché, come avviene in questi ultimi anni in Italia, il tema dell’identità è posto al centro della vita delle comunità ebraiche il tasso della loro governabilità è destinato a decrescere in modo verticale. In tal caso si assiste a una polarizzazione tra i due estremi dell’osservanza più rigorosa e della laicità più radicale. Questa tensione diviene l’asse dominante a scapito delle posizioni intermedie, maggioritarie ma identitariamente meno sicure.

Una celebre immagine virgiliana parla di un ramo d’oro che pone un’invincibile resistenza a chi vuole svellerlo con la forza, mentre si consegna da sé quando vi ci si accosta con mano arrendevole. Ciò vale anche per l’identità: tanto più la si vuole afferrare tanto più sfugge; quando non ce se ne preoccupa essa invece viene da sé.

 

Piero Stefani

55 – Nomi e identità (27.02.05)ultima modifica: 2005-02-26T11:10:00+01:00da piero-stefani
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