33 – Ebraismo e cristianesimo nella cultura europea (11.07.04)

Il pensiero della settimana n. 33

 

 

Conversazione per la Fondazione Centro Studi A. Capitini, Perugia 26.1.2004

(Sintesi di una sbobinatura. È più lungo del solito: un congedo prima della pausa estiva. Il pensiero tornerà la prima settimana di settembre. Buona estate tutti e in particolare, anche a nome vostro, ai ‘segretari’).

 

 

Affronterò il tema, che esigerebbe un’infinità di sfaccettature, attraverso una serie di osservazioni o note di lettura. Non farò un discorso lineare, né proporrò una tesi esclusiva.

Un processo di secolarizzazione culturale, iniziatosi nell’Ottocento e proseguito nel secolo successivo, ha portato talvolta a prospettare l’esistenza di un’evoluzione o di una progressione da antiche matrici sacrali a esiti profani legati ad alcune espressioni fondamentali della vita sociale e della cultura. Ma questo rapporto non può risolversi semplicemente in chiave evolutiva.  Nel XX sec. alcuni temi cruciali dell’esistenza collettiva sono stati ricondotti ad antiche matrici religiose. La radicalità di certe domande del tipo: perché l’uomo per vivere deve lavorare? Perché nell’uomo c’è il senso di colpa e che ne deriva da tutto ciò? Nel XIX-XX sec. ebbero risposte potenti nell’ambito del materialismo storico o della psicoanalisi. In seguito l’antropologia culturale o il pensiero politologico hanno intuito che la secolarizzazione di antiche strutture sacrali costituisce un terreno di ricerca fecondo. Si impara di più dall’indagare il processo che  ha ricondotto il sacro ad altro da sé che dal cercare risposte direttamente profane al perché l’uomo lavori o perché ci sia in lui il senso di colpa o così via. L’orizzonte religioso è apparso un terreno indispensabile per comprendere il mondo. A tal proposito forse l’esemplificazione più battuta è quella della violenza. Basti pensare alle considerazioni, fin troppo note, di René Girard sulla violenza e il sacro. A più vasto raggio sembra ancora indispensabile riferirsi a parametri religiosi e alla loro secolarizzazione al fine di comprendere la realtà. A proposito delle religioni più che parlare di un «futuro di un’illusione» sembra più pregnante riferirsi a esse come radici del nostro presente. Ciò avviene in un senso più imparentato a quello dell’imprinting che a quello del superamento dialettico o evolutivo del religioso (da qui la nota di patetismo presente in coloro che, senza rifletterci, amano ripetere lo stantio «perché non possiamo non dirci cristiani» di Benedetto Croce).

Questi temi si stanno riproponendo alla riflessione politica come il problema delle radici cristiane o giudaico-cristiane dell’Europa. Domandiamoci: si tratta anzitutto di radici cristiane, o di radici giudaico-cristiane? E quali sono le implicazioni di queste due diverse formule, eventualmente da inserire nel preambolo della Costituzione europea (ipotesi, come è noto, ora tramontata)? I due termini – giudaismo e cristianesimo – nella loro distinzione ed eventuale conflittualità, non possono comunque ignorarsi reciprocamente: sorgono perciò, sullo sfondo di una tradizione religiosa e culturale che li rende complessi e articolati, questioni di identità, di uguaglianza/diversità, di individualità/collettività.

1. Inizierò con il riflettere sul monoteismo. Pur senza affrontare direttamente la questione della violenza che può connettersi al monoteismo (esclusione di culture che esprimano in altre forme la propria esperienza religiosa), si deve notare che, accanto alla visione biblica dell’unico Dio creatore del cielo e della terra, Signore di tutti i popoli, c’è quella del Dio che ha stabilito un legame particolare con un  solo popolo senza che questa scelta sia sostenuta da alcuna ragione oggettiva («Il Signore si è legato a voi e vi ha scelto, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli […] ma perché il Signore vi ama», Dt 7,7-8). Quindi il Dio biblico che costituisce l’universalità stabilisce anche la particolarità: non è solo il Dio cosmopolita che pone una legge valida per tutti, né solo il Dio di un gruppo etnico particolare. Possiamo pensare a strati diversi della tradizione biblica, tuttavia nell’assetto definitivo del Deuteronomio rimangono entrambi: l’universalità, la particolarità, ribadite ambedue in Dt. 6,4 ss.: «Ascolta, Israele il Signore è nostro Dio il Signore è uno».

2. La Legge (Torà) è il legame particolare del popolo d’Israele con il suo Signore; essa si concretizza in comandi da attuare in forma di precetti. Anche la Legge ha un duplice carattere di particolarità e universalità. Dio si rivolge universalmente agli uomini attraverso la coscienza (cfr. Rom 2,14-15), ma nello stesso tempo stabilisce un patto  speciale con un popolo, vincolandolo con norme che lo distinguono da ogni altro (storicamente sembra che nel Vicino Oriente antico non vi siano stati altri popoli contraddistinti da una differenza rituale rivelata da Dio). Questi precetti, riferiti solo agli appartenenti al popolo, diversamente dalle leggi etiche universali, distinguono il gruppo rispetto alle altre genti che non sono vincolate ad essi.

3. Tuttavia non bisogna dimenticare la componente messianica della tradizione biblica che considera questa discriminante come non definitiva. Il Dio d’Israele è il Dio di tutti ma non tutti lo riconoscono come tale. In una certa epoca avverrà un mutamento definitivo che comporterà il riconoscimento del Dio d’Israele pure da parte delle genti (gojim). Per questa via la particolarità del popolo ebraico è legata all’universalità ed è chiamata ad essere testimone di Dio per tutti. Qui si innesta il tema della lotta contro l’idolatria e le false immagini della divinità presenti dentro e fuori Israele. All’interno della prospettiva biblica la venuta di Gesù va vista come la realizzazione della possibilità di un accesso diretto delle genti al Dio d’Israele. «Diretto», in questo caso, significa che esso può aver luogo senza passare attraverso l’ebraismo. Gesù è legato alla particolarità in quanto Messia d’Israele, «nato sotto la Legge» ma è connesso anche all’universalità umana in quanto «nato da donna» (Gal 4,4). In Gesù la particolarità agisce sull’universalità e questo vale anche per l’annuncio portato in suo nome.

4. Coloro che annunciano Gesù si attengono alla particolarità della predicazione: la fede nasce dalla parola ascoltata e l’ascolto è dei singoli individui. La redenzione è una promessa universale ma, secondo il Nuovo Testamento, si attua attraverso il mezzo umile e particolare della predicazione. Paradosso messianico del «piccolo gregge» che diviene mezzo per l’attuazione di una salvezza universale. I credenti in Gesù Cristo partecipano pienamente dell’adam – la creatura umana universale – non già astrattamente ma secondo la reciproca appartenenza ai gruppi diversi da cui provengono: giudei e greci (vale a dire i non ebrei, i gentili). I credenti costituiscono una comunità (Chiesa) non già in quanto appartenenti a un gruppo omogeneo, soggetto a norme identitarie, ma in quanto chiamati provenienti da gruppi diversi. Ebrei e gentili possono entrambi credere in Cristo. Siamo di fronte a tre diverse strutture di identificazione: l’appartenenza universale all’umanità, l’appartenenza a Israele e alla sua storia (il che comporta essere sotto la Legge) e infine l’appartenenza agli incirconcisi, ai gentili. La fede in Gesù Cristo diventa un elemento discriminante entro il gruppo di provenienza. L’evangelo spezza la rigidezza identitaria e ammette diverse opzioni: si può essere ebrei credenti in Cristo, ma anche ebrei non credenti in Cristo e in maniera analoga ciò vale per i gentili. Non si tratta più solo di appartenere in modo organico a un gruppo originario, ma di rispondere a una chiamata che interpella personalmente. Mentre si nasce ebrei o gentili si diviene credenti in Cristo (da qui il dibattito mai estinto interno al cristianesimo sull’opportunità del battesimo dei bambini).

5. Si sta toccando il problema delle origini di quanto il linguaggio moderno e secolarizzato della cultura occidentale avrebbe chiamato libertà di coscienza. L’evangelo concerne una chiamata che riguarda una persona, ma che nello stesso tempo non la identifica totalmente. Proprio su questa base nell’orizzonte del Nuovo Testamento è pensabile una separazione tra religione e politica. A differenza dell’ebraismo la fede neotestamentaria  non organizza una collettività anche in senso sociale e politico proponendo norme di vita e di identità storico-sociali. Le comunità che professano tale fede possono aver residenza nel mondo solo come «piccolo gregge», cioè abitando all’interno di collettività diverse dalla propria, senza avere lo scopo di fondarle e di gestirle. Il potere politico non è legittimato da una investitura e promessa divine (come avvenne per la dinastia davidica – cfr. 2Sam 7), ma si esercita come modalità per tutelare l’ordine in base alla legge e come mezzo atto a frenare il dilagare della violenza interumana (in questa luce vanno intesi i passi della lettera ai Romani, in passato non di rado assunti come legittimazione dell’ordine cristiano della politica, mentre è fondamentale tenere conto che essi parlano di un governo non  cristiano- cfr. Rom 13,1-7). L’evangelo ha subìto una modificazione radicale quando è diventato una religione di maggioranza e ha cristianizzato la politica (svolta costantiniana). Il messaggio del Nuovo Testamento non ha strumenti propri per gestire intere società (i tentativi storici di realizzare collettività rette dal «discorso della montagna» sono sempre stati, per necessità intrinseca, legati a piccoli gruppi), né per impedire la sopraffazione dei violenti, né per amministrare la giustizia secondo un’uguaglianza formale. Di fronte a tali difficoltà il cristianesimo costantiniano cerca strumenti al di fuori  dell’evangelo: nel diritto romano, ma anche nella stessa Bibbia, presentando se stesso come nuovo Israele (vale a dire rendendo «diritto canonico» parti della Torà).Ciò significa che la Chiesa universale sostituisce il gruppo particolare costituito dall’Israele storico; ma in ciò è insito un inestirpabile vizio di origine. L’ossimoro (a volte tragico) in cui si è dibattuta la cristianità è quello di proporsi come universalità identitaria. La Chiesa universale non legittima nulla fuori di sé e potenzialmente si ritiene autorizzata a inglobare tutto («extra Ecclesiam nulla salus»). Di qui la difficoltà del cristianesimo costantiniano di ammettere al proprio interno gruppi non cristiani (disagio non patito per ragioni a esso peculiari dall’islam),con unica, eloquente eccezione: gli ebrei, testimoni involontari e puniti del passaggio dall’antica particolarità «carnale»  alla successiva universalità sedicente «spirituale». L’ideologia antigiudaica è l’unico riferimento possibile per collocare gli ebrei entro una societas christiana. Altrettanto inevitabile sarebbe stata lungo i secoli la presenza di voci cristiane che avrebbero giudicato un simile assetto di potere  tradimento dell’evangelo.

6.Quando la società «cristiana» si secolarizza vengono alla ribalta varie opzioni. Vi è innanzitutto la secolorizzazione tollerante dell’evangelo che sfocia nella proposta liberale della separazione tra Stato e Chiesa dando a quest’ultima una valenza e una struttura semplicemente volontarie e personale e uno scopo puramente «spirituale» (la salvezza delle anime) e al primo un fondamento collegato all’universalità dei diritti di natura individuali. Nell’ambito di questo modello resta assai arduo sia trovare spazio a diritti collettivi  collegati alle varie comunità religiose sia concedere a queste ultime una voce in capitolo all’interno della polis in quanto espressione di gruppi capaci di affermare qualcosa di attinente anche al «bene comune» e non solo alla salvezza delle anime.

L’altro tipo di secolarizzazione è stato quello di stampo prima nazionalistico poi totalitario che ha negato alle minoranze non solo i diritti collettivi ma anche l’esercizio di quelli individuali. Nei casi estremi si può dire perciò che abbia negato – anche nella sua forma secolarizzata dei diritti umani – il presupposto teologico dell’universalità della creazione e abbia biologizzato il tema della diversità e dell’elezione. Da questo punto di vista  appare terribilmente esemplare la frase di Hitler che riassunse lo scontro germanico-ebraico con questa formula: non possono esistere due popoli eletti.

   7.La parte ebraica è totalmente coinvolto in questo clima storico-culturale. Essa pensa e propone se stessa sempre come minoranza. All’interno di uno Stato democratico non ebraico ciò è possibile in base alla formula pronunciata da Tullia Zevi all’atto della sigla, a metà degli anni Ottanta, delle intese tra Stato italiano e Unione delle comunità ebraica secondo cui una tradizione millenaria fa sì che gli ebrei possano rivendicare a loro stessi l’uguaglianza nella diversità e la diversità nell’uguaglianza. Ciò comporta che gli ebrei si pensino comunque come minoranza ostracizzata nel passato e dotata di una giusta volontà di riconoscimento nel presente.

   Occorre essere  chiari: il sionismo, l’unico movimento che si è prefissato di creare  storicamente una società a maggioranza ebraica, cade fuori da questi parametri. Una fonte di molti equivoci, da parte sia ebraica sia non ebraica, è di pensarlo invece ancora entro quest’ambito. La sfida sionistica di creare una società/stato maggioritario ebraico doveva comportare per forza la secolarizzazione dell’idea messianica. Il sionismo è l’ingresso del popolo ebraico nella sua età costantiniana. Espressione che va giudicata innanzitutto come constatazione e non come un giudizio di valore. Perciò la tutela della dialettica Stato d’Israele-diaspora è fondamentale per la salvaguardia stessa dell’ebraismo. Essa rappresenta il nesso tra minoranza-maggioranza che può aiutare la maggioranza israeliana a pensarsi per quello che è nell’orizzonte mondiale: una minoranza ebraica. Ma se, secondo la retorica sionista, si dà credito allo Stato d’Israele di rappresentare tutti gli ebrei, la deriva identitaria appare inevitabile. In base a tutt’altri parametri ciò vale anche per l’altro grande avvenimento che ha riguardato gli ebrei del XX sec.: la Shoà. Evento capitale che resta davvero fedele alla sua tragica eredità quando diviene luogo di ripensamento della civiltà europea e non già nel momento in cui è presentato come componente identitaria ebraica.

   8. Dietro questioni di attualità vi sono perciò problemi di lunga durata di natura non solo storica ma anche teologica. Le religioni, qualora non siano irrigidite in insiemi puramente dottrinari, portano in loro stesse alcune dinamiche ambivalenti, esse possono andare da derive indentitarie alla volontà di proporre la salvaguardia dell’uguaglianza e delle differenze individuali e collettive come tratti costitutivi del bene comune. Per  le comunità religiose è un tempo di sfide grandi, purtroppo molti sono i segni che indicano che esse non ne sono in genere all’altezza.

Piero Stefani

 

33 – Ebraismo e cristianesimo nella cultura europea (11.07.04)ultima modifica: 2004-07-10T11:00:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo