Il taccuino di Piero Stefani
La poesia può essere un rifugio. Termine buono, ma non privo di ambivalenza. Ripararsi è a volte una necessità e persino una salvezza per sé e per i propri cari; in altre circostanze è invece un rinchiudersi iperprotettivo e in definitiva egoistico; è un serrare la porta per lasciar fuori tutto il resto. Questo vale anche quando si fa ricorso alla poesia per dire le tragedie del mondo. A volte solo quella voce pare in grado di raccogliere in un breve volger di parole quanto non si riesce a comunicare con lunghi e articolati discorsi. Per comprendere e partecipare, per quanto ci è dato, alla condizione dei combattenti nelle fangose trincee della Prima guerra mondiale il verso «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie» vale più di un trattato di storia. In altre circostanze le parole poetiche possono tramutarsi in uno schermo estetico che ammanta di dicibilità e quindi di sopportabilità quanto altrimenti allagherebbe troppo l’anima. In questi casi la poesia si presenta come splendido oblio. Una dimenticanza lustra e decorata che vale poco più di un nudo e crudo non pensarci. La cruda sentenza di T. W. Adorno che dichiarava l’impossibilità di far poesia dopo Auschwitz la si può intendere, forse, anche in questo senso.
Dedicare una poesia alla morte di qualcuno si pone sulla linea di confine posta tra parole in grado dire quanto l’animo in altro modo non sa esprimere e la superficialità di rinvenire un bel modo per commentare un evento che non si ha il coraggio di fissare con i propri occhi. Questo vale anche per i morti gettati nelle acque del canale di Sicilia. Non è la prima volta. Andando indietro con gli anni torna alla mente il boat people, i profughi morti in numero ben maggiore in acque lontane fuggendo da paesi devastati dalla guerra. Ora le coste sono le nostre e dall’altra parte vi è l’endemica emergenza legata alla permanente e iniqua sperequazione con cui le risorse sono ridistribuite sia sulla faccia del pianeta sia all’interno delle singole società. Tutto questo ci tocca da vicino; di solito però le coste del Mediterraneo sono troppo identificate con la meta delle vacanze per ricordarle il 2 novembre quando si va ai cimiteri e non al mare. Di questi morti vogliamo far memoria con versi tratti da una raccolta poetica che fin dal titolo dice del nostro mondo: Terra desolata. Ricorrere ad essi non ci fa uscire dall’ambiguità: può essere una maniera bella e nobile per guardare altrove o può diventare un modo perché le acque della dimenticanza non si chiudano troppo presto sui relitti del nostro ricordo.
T.S. Eliot, La morte per acqua
«Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni,
dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo
O tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento
Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto come te.»
Piero Stefani