Immagini di morte (13.09.03)

Il taccuino di Piero Stefani 

 

Un episodio estivo ha riportato per un istante a riflettere sulle aberrazioni del mondo dell’immagine. Si è trattato di un attimo che ha consentito a sociologici, psicologici e esperti vari di affacciarsi di nuovo alla ribalta. Poi le acque si sono placate e lo specchio dello stagno mass-mediatico ha continuato a riflettere tutto come prima.

I soldati americani, grazie a una interessata delazione, scoprono la casa in cui si rifugiano Udai e Qusai i due figli di Saddam Hussein. Segue un breve conflitto a fuoco.  I due vengono uccisi. Sono proprio loro? È opportuno mostrare quei volti tumefatti  o al contrario bisogna avere rispetto almeno per i morti? Alla fine  prevale la volontà di documentare  visivamente l’accaduto. Subito scoppiano le polemiche. Per quanto si sia adusi a mostrare di tutto, quella vista crea disagio. Si evocano e deprecano altre scene di dileggio. Nel sottofondo c’è però un disagio non tematizzato. La moderna civiltà occidentale, che ha positivamente allargato la sfera dei diritti, non ha in proprio elaborato alcuna ragione in base alla quale si debbano rispettare i morti. In questo caso ci si rifà a valori precedenti. Quanto la tecnica ha consentito è di far sì che il corpo del morto possa servire ad altri vivi, dimensione che può essere considerata nobile, ma che è retta da un’ovvia opzione a favore dell’utilità (o se si vuole del dono) che è altro dal rispetto.

Nella dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo redatta su iniziativa del Consiglio islamico per l’Europa  del 1981 si legge sotto il titolo di “Diritto alla vita”: «Dopo la morte, come in vita, il carattere sacro del corpo di una persona deve essere inviolabile. I credenti sono tenuti a vegliare acciocché il corpo di una persona deceduta sia trattato con la solennità dovuta». Nulla di simile vi è nelle carte occidentali: lì il soggetto diviene titolare di diritti con la nascita e cessa di esserlo con la morte. Se  condotto fino in fondo, il dibattito sul rispetto da portare ai morti mette allo scoperto alcuni dei limiti più inquietanti della fondazione occidentale dei diritti.

L’immagine è  una realtà su cui si può intervenire unilateralmente. Essa non può automodificarsi. Eppure  la sua forza profonda è legata alla sua stessa immobilità. Ognuno di noi ha qualche vecchia foto che parla questo linguaggio. Quando ci si rivede a distanza di anni o di decenni è proprio  la staticità dell’immagine a essere potente e a farci riflettere sulla nostra modificabilità che alla fine ci conduce inevitabilmente alla decadenza. Il dandy Oscar Wilde aveva a suo tempo già compreso tutto  ciò. Tuttavia la prima realtà che nella storia umana è stata dotata di questa strana forza è stato il morto: nella sua immobilità egli mostra quel che un giorno anche noi saremo. L’immagine ha una sottile parentela con la morte. Lo dimostra, sia pure a parti rovesciate, lo stesso atto pietoso di coprire il cadavere con un velo. Se si vuole davvero denunciare l’attuale, impietosa egemonia delle immagini non basta protestare solo in alcuni casi estremi, specie se si metabolizza quotidianamente  tutto il resto.

Immagini di morte (13.09.03)ultima modifica: 2003-12-25T11:15:00+01:00da piero-stefani
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