291 – Il 25 aprile e la manna dal cielo (25.04.2010)

Il pensiero della settimana, n. 291

 

Tra i pochi detti proverbiali di origine biblica forse ancora conosciuti c’è l’espressione «è una manna dal cielo». Nel suo uso corrente, essa allude a un dono gratuito  e quindi immeritato, come si ci si trovasse di fronte agli esiti fausti di una specie di colpo di fortuna. Come avviene nel caso della pazienza di Giobbe, modo di dire che tradisce il significato più profondo assegnato dalla Bibbia a questa figura,  anche qui si tratta di un fraintendimento. La manna dal cielo è tutto tranne un beneficio poco esigente.

Della manna si parla per la prima volta nel lasso di tempo che va dal passaggio del Mar Rosso al Sinai (cfr. Es 16). Si è nel deserto, la liberazione è alle spalle, mentre il patto che avrebbe legato la comunità con Dio e con se stessa deve ancora giungere. Non ci sono ancora norme e regole. La libertà ha introdotto i figli di Israele in un ambito rischioso. La tentazione più immediata è quella delle regressione propria di chi cede all’eterno baratto tra libertà e sicurezza. Nel deserto il popolo comincia subito ad avere nostalgia delle pentole di carne e del pane che aveva in Egitto. Non è solo questione di cibo: si tratta dello stato d’animo proprio di chi preferisce stare tranquillo, sia pure in modo gramo, al camminare liberi nel deserto dove il domani non è assicurato. Un detto – divenuto  in ambito ebraico anch’esso quasi proverbiale – afferma che fu più facile far uscire gli ebrei dall’Egitto che l’Egitto dall’animo degli ebrei.

La manna comincia a scendere qui. Sulle prime, il pane dal cielo può essere inteso come una forma di assistenzialismo. I figli di Israele erano abituati a essere schiavi, mentre adesso si trovano in un luogo inospitale e privo di risorse, essi perciò hanno bisogno di aiuto da parte del Signore. Proprio questa  interpretazione ha condotto al senso comune attribuito al detto «è una manna dal cielo». Grazie all’aiuto che viene dall’alto si  trova il cibo già pronto, basta raccoglierlo. Il testo biblico però si esprime in tutt’altro modo: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova [alla lettera «lo tenti»], per vedere se cammina o no secondo la mia legge» (Es 16,4). Il Signore assiste e responsabilizza in pari tempo. Lo fa sullo stesso terreno in cui, in precedenza, si era manifestata la regressione: il cibo. La manna è la risposta capovolta alle pentole della carne e al pane mangiato a sazietà in Egitto. La replica avviene però soprattutto sotto forma di anticipazione. Nella struttura narrativa dell’Esodo il Sinai – vale a dire il dono della Legge – è anticipato nelle norme che presiedono alla raccolta della manna: non la si può accantonare per il giorno dopo, ma occorre anche  rispettare il riposo del settimo giorno. La legge rende responsabili, ma non dà sicurezza. Essa esige di essere rispettata ogni giorno sia quando si raccoglie sia quando si riposa; per usare espressioni profane: la legalità vale tanto nel lavoro quanto nel tempo libero.

L’anticipazione del Sinai, presente nelle regole relative alla manna, sta a significare che l’intero stile di vita di una comunità libera deve essere diverso da quello assunto quando si era asserviti. L’atto di contrastare quanto Fromm chiamò la «fuga dalla libertà» o è quotidiano o è illusorio. Non è dato garantire in anticipo il rispetto della legalità. Le norme relative alla raccolta della manna attestano che oggi non si può mettere «fieno in cascina» per domani  (a meno che ciò non sia richiesto da una legge  volta a tutelare la dignità di un riposo lontano dal presentarsi come semplice  evasione).

Quando, tre mesi dopo l’uscita dall’Egitto, si arriva alle falde del Sinai, il popolo si trova ormai nelle condizioni di poter scegliere, liberamente, di servire il suo Signore. Mosè perciò propone ai figli di Israele un patto ed essi coralmente rispondono: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo» (Es 19,8). L’alleanza  fu loro prospettata nei termini propri di una libertà responsabile, ma anche umanamente non assoluta. Il linguaggio non è quello del «tu devi», ma quello del «se… allora».  Se accogliete il patto allora diverrete per me un popolo santo (Es 19,5-6). L’osservanza della legge è conseguenza della libertà con cui si è accolta l’alleanza proposta al popolo dal Signore per mezzo di Mosè.

Il capitolo diciannovesimo dell’Esodo inizia con una notazione apparentemente strana. Tradotta alla lettera suona così: «Al terzo mese dall’uscita dei figli di Israele dalla terra d’Egitto, in questo giorno essi giunsero al deserto del Sinai» (Es 19,1). Perché, si chiede l’ermeneutica rabbinica, vi è quell’incongruo «questo» e non un più logico «quel»?  La risposta è immediata: ciò sta a significare che la Torah è come se fosse stata data oggi. In altri termini, il patto va riconfermato ogni giorno osservando le clausole da esso imposte.

Nella liturgia ebraica il cammino dall’Egitto al Sinai è ripercorso nel periodo che va da Pesach (Pasqua) a Shavu‘ot (Settimane, l’equivalente della Pentecoste). Se volessimo compiere una trascrizione secolarizzata di questo itinerario nell’ambito della storia italiana, si potrebbe proporre la seguente analogia: Pesach sta a  Shavu‘ot come il 25 aprile sta al 2 giugno (che non fu solo la data del referendum ma anche quella dell’elezione dell’Assemblea costituente). Un modo autentico per celebrare il 25 aprile consiste nell’osservare le clausole di un patto che ci si è  responsabilmente e liberamente dati, il che comporta un quotidiano rispetto della legalità.

In riferimento al Sinai e all’uscita dall’Egitto si legge nel Midrash: «chiunque confessa il giogo dei comandamenti confessa l’esodo dall’Egitto, e chiunque nega il giogo dei comandamenti nega l’esodo dall’Egitto». Proponiamone una trascrizione secolarizzata in ambito italiano: «chiunque pratica la legalità costituzionale, fa memoria del 25 aprile, e chiunque nega la legalità costituzionale nega il 25 aprile».

Piero Stefani

 

291 – Il 25 aprile e la manna dal cielo (25.04.2010)ultima modifica: 2010-04-24T16:14:00+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “291 – Il 25 aprile e la manna dal cielo (25.04.2010)

  1. Lo stimolante articolo di Stefani su “La manna ed il 25 Aprile” suggerisce una serie di ulteriori considerazioni.
    Accanto all’approccio interpretativo storico-critico della Scrittura si affianca quello propriamente ermeneutico.

    Vero è che l’alleanza tra popolo e Dio non è del tipo “ Tu devi” ma del tipo “se……..allora”, tuttavia ben originali sono i paradigmi dell’ alleanza divinità/uomo se non altro perché subito risulta evidente il suo carattere di “asimmetricità” :
    l’uomo “gettato nel mondo” si trova alle prese con una proposta di alleanza da parte del suo potente Creatore.
    Deve scegliere tra l’accettare la proposta di alleanza o il rifiutarla. Tertium non datur.
    Non ulteriori alternative praticabili.

    Così egli comincia, verosimilmente suo malgrado, la eccitante, avvincente avventura verso la libertà !
    E si trova ben presto di fronte alla difficoltà ed all’imprevisto.
    Attraversare un deserto con scarsissime risorse a disposizione ( nulla avendo in comune tale dimensione esistenziale con fiction televisive nostrane, essendo il deserto un reale luogo di disagio e di morte ! )
    A questo punto quello che l’uomo chiede al suo potente Alleato è, oggi si potrebbe dire, il “minimo sindacale”: il sostentamento materiale per portare a termine l’impresa.
    Gli viene accordato con la precisa clausola che il sostentamento, la manna – “ Man hu” che cos’è ? Ovvero la risorsa di cui si ignorava l’esistenza – venga utilizzata ampiamente da tutti senza tentativi di accaparramento ed accumulo.
    Il codicillo è talmente chiaro che ciò che si conserva nei giorni feriali va in malora mentre quello che viene serbato per il dì di riposo mantiene intatte le sue proprietà.
    Si potrebbe quasi parlare di una norma “antitrust” !
    In effetti sembra una prima norma di quello che sarà il più complesso articolato della Legge.
    Oggi mi sembra solo l’Islam, alcune derivazioni dell’Induismo e gruppi new age conservano l’esperienza del digiuno rituale come momento di purificazione spirituale e di condivisione empatica con quanti vivono la scarsità di cibo e la conseguente morte come devastante realtà.

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