166 – L’occhio di Dio (08.07.07)

Il pensiero della settimana, n. 166

 

La vita di Judah Rosenthal, uno dei protagonisti del film di Woody Allen Crimini e misfatti,  fu dominata a lungo dall’espressione: «l’occhio di Dio». Gliela diceva il padre, il quale sembrava racchiudere in essa tutto il messaggio dell’ebraismo: qualunque cosa tu faccia, in bene o in male, Dio ti vede. Judah fin da bambino non credette più in alcuna realtà trascendente, ma quella frase gli restò dentro come una specie di sinonimo della coscienza morale. Ciò fece sì che l’ironia al suo riguardo divenne tutt’uno con l’abbandono della dimensione etica. Quando nella scena iniziale, in una cerimonia benefica – in realtà programmata al solo scopo di coprire malversazioni finanziarie – Rosenthal si chiede se non fosse stato il motto paterno ad averlo indotto a diventare oculista,  il gioco, in pratica, era già concluso. Tutto il resto sarebbe stata una cascata di conseguenze. Né è causale che, nel film, la coscienza morale trovi la propria impersonificazione più limpida in un rabbino a cui  le cure dell’oculista non riescono a evitare la cecità.

Quando Judah, adultero e assassino come il re Davide (anche se qui a essere uccisa è l’amante, non suo marito), si trova di fronte alla gravità del suo crimine ha un sussulto di tormento interiore. Il turbamento si presenta però come una serie di incubi che non lo conducono mai a pronunciare alcun Miserere (cfr. Sal 51). La sua angoscia appare legata solo alla paura di venir scoperto; cosicché  quando il delitto è attribuito a un’altra persona (innocente di quel crimine, ma effettivamente colpevole di altri assassini, cosicché si può dire «uno più uno meno…») tutta l’ansia si squaglia come neve al sole. Di conseguenza l’affetto familiare e la rispettabilità sociale ne escono privi di scalfitture. A differenza di quando avveniva per il custode d’Israele (cfr. Sal 121,3-4), in lui l’occhio di Dio si è addormentato e quindi pure la coscienza morale può dormire sogni tranquilli.

Una nota rappresentazione ‘trinitario-polifemica’ di Dio lo raffigura come un triangolo equilatero con dentro un unico grande occhio, implacabilmente aperto. Il giudizio e il controllo sono detti al singolare. Anche nel parlare comune si afferma: «ti tengo sott’occhio». L’attenzione e la vigilanza sono detti invece al plurale (o, se l’italiano fosse più preciso, al duale): «occhi aperti», «sono tutt’occhi». Quale significato è racchiuso nel rendere l’immagine di scrutamento e giudizio attraverso un riferimento singolare che sarebbe deforme se fosse presente in una creatura umana? Probabilmente è eccessivo cercare di ricavarne a tutti i costi qualcosa; ma forse non è azzardato volervi cogliere il segno di una unilateralità, di una esasperazione della componente della giustizia non compensata  dalla misericordia e dalla comprensione. L’occhio al singolare rappresenta la pretesa della obiettività di una registrazione fattuale che esige di essere prova inconfutabile. L’umanità di fronte a Dio si presenterebbe in tal modo come un’immensa area videosorvegliata. Le telecamere hanno un unico obiettivo e per esse la metafora dell’occhio è sempre singolare.

Essere sotto l’occhio di Dio costituisce  l’esasperazione del detto evangelico che allude a un Padre che vede nel segreto. Forse per questo l’appellarsi al solo tasto del timore, divenuto paura a motivo della sua unilateralità, si trasforma in richiamo sterile o alienante. Nel ‘Discorso della montagna’ la capacità di vedere propria del Padre è affermata al fine di rassicurare che, grazie a essa, Egli è in grado di cogliere la sincerità di un’intenzione libera da ogni secondo fine (cfr. Mt  6,1-6.15-17). In quei passi il  giudizio  non è chiamato in causa.

Vi è una qualche verità nella battuta melodrammatica della Forza del destino in cui Alvaro, tentato di rompere un giuramento, esclama che se anche nessuno lo vede «ben mi vegg’io». Minacciare l’occhio di Dio serve a poco o a nulla se non si è in grado di autoscrutarsi. Diverso è il caso in cui ci si richiama alla vista come segno della volontà divina di accogliere, proteggere, partecipare. Lì però occorre sempre alludere a occhi al plurale: la vicinanza non può parlare per astrazioni. 

Nella Bibbia ebraica l’espressione «occhi di Dio o del Signore» è molto frequente (torna circa duecento volte). Invero è conosciuta anche la versione al singolare. Sarebbe semplicistico trarre da questa abbondanza di occorrenze conclusioni univoche. Basti, perciò, citare un unico caso in cui l’immagine degli occhi divini è impiegata per indicare a un tempo lo sdegno davanti al male e la misteriosa incapacità del Signore di intervenire a protezione del giusto: «Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità, perché, vedendo i malvagi, taci, mentre l’empio ingoia il giusto?» (Ab 1,13). Anche in relazione a questo passo si può evocare la verità biblica secondo cui l’uomo è  creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27). Vi è crescita etica solo quando  c’è spazio tanto per lo sdegno morale (vale a dire il rifiuto di rendere accettabile quanto vi è di inaccettabile nel mondo reale) quanto per la consapevolezza di non essere in grado di mutare in modo esteso e definitivo la realtà circostante. Gli occhi del Signore possono diventare il simbolo di un’etica, non importa se religiosa o laica, che si rifiuta di lasciarsi guidare dal principio di adattamento alla malvagità del ‘mondo reale’ (alternativa, quest’ultima,  teorizzata e praticata nel film  dal fratello gangster di Judah). 

Piero Stefani

 

166 – L’occhio di Dio (08.07.07)ultima modifica: 2007-07-07T10:45:00+02:00da piero-stefani
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