578 – Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento (04.09.2016)

Il pensiero della settimana, n. 578

 Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento [1]

Un tempo, quando l’uscita di una nuova Garzantina era un avvenimento, sui giornali apparivano immancabili commenti che registravano non solo l’ingresso di nuove voci, ma anche la mancanza di alcuni lemmi. A tutt’oggi, quando un docente universitario prende in mano una tesi, comincia spesso dalla bibliografia per notare presenze e assenze (gravi soprattutto se si tratta del suo nome). Il libro che presentiamo è in effetti una rielaborazione di una tesi di dottorato in Antico Testamento svolta presso la Westfälische Universität di Münster e inserita nel progetto «Estetica e Teologia» della Fondazione Bruno Kessler di Trento. La tesi è stata elaborata sotto la guida dei Doktoväter Ulrich Berges ed Erich Zenger (sostituito, dopo la sua scomparsa, da Klaus Müller). Come si conviene a questo genere di testi, il libro è corredato da una copiosa bibliografia (pp. 165-187). Eppure in essa non compare un nome atteso dalla maggior parte dei lettori, quello di René Girard. L’osservazione equivale a una critica? Niente affatto, si tratta piuttosto di un apprezzamento. Ciò ovviamente non significa svalutare l’opera del notissimo autore; equivale invece a tirare un sospiro di sollievo nel prendere atto che è dato parlare di violenza e di sacro anche a prescindere da Girard, il cui pensiero, su questi temi, è stato tanto egemonico da scoraggiare, di fatto, altri approcci. Peraltro non va dimenticato che, quando si confronta con la Bibbia, il famoso antropologo dimostra di non essere esente da lontani retaggi di matrice marcionita.

Si è detto che la ricerca rientra in un progetto denominato «Estetica e Teologia». Il particolare può suonare sorprendente. Cosa c’entra la violenza in questo contesto? La risposta è più articolata di quella sintetica che ora proponiamo, tuttavia anche quest’ultima è già in se stessa indicativa. La parte centrale del libro è costituita da una rigorosa analisi di tre composizioni poetiche, o canti, derivati dall’Antico Testamento. Nel loro insieme essi coprono tre settori costitutivi della Bibbia; si tratta infatti di Esodo 15,1-21 (Pentateuco)(pp. 39-84), di Giudici 5,1-31 (Libri storici) (pp. 85-123), di Abaquq 3,1-19 (conformandoci alla grafia usata nel libro, Profeti minori) (pp. 125-156). Questi capitoli centrali sono preceduti da una Introduzione (pp. 9-15) e dal primo capitolo «La violenza divina» (pp. 15-37) e seguiti dall’ultimo capitolo «La pluralità di Dio nella testimonianza dell’uomo» (pp. 157-163). Specie il cantico di Mosè (e i successivi versi di Miriam) e quello di Debora pongono in primo piano un uso liturgico volto a celebrare la salvezza compiuta dal Signore, tema presente anche nella preghiera (tefillah) di Abaquq, la quale, nonostante il suo tono di lamentazione, si conclude con un paio di versi volti a esprimere la gioia e l’esultanza nel Signore (e con la glossa «Al maestro del coro. Per strumenti a corde). La violenza divina è cantata (pp. 30-37).

Dal punto di vista metodologico, l’attenzione è concentrata sulla messa in scena dei componimenti prescelti che vengono collocati all’interno di un breve quadro storico-letterario. Si avanzano ipotesi sulla datazione dei testi (sempre molto più recente di quella degli avvenimenti ricordati) e sull’insieme della caratteristiche letterarie. Il tema scelto ha convinto l’autrice a non preferire un metodo di indagine rispetto a un altro, per esempio quello storico-critico piuttosto che quello canonico, non si opta neppure solo per l’approccio estetico. Si segue invece la linea di impiegare ciascuno di essi nella misura in cui sono utili per riflettere sui testi (p. 30).

Il primo e l’ultimo capitolo forniscono le chiavi di lettura generali del tema. Specie la titolazione scelta per le pagine conclusive, «La pluralità di Dio nella testimonianza dell’uomo», è in se stessa una spia molto efficace di quello che è, forse, il messaggio principale dell’intero volume. Il problema della violenza divina è nostro e non di coloro che per secoli immaginarono e tramandarono immagini violente di Dio.  Il pacifismo e il radicarsi di una visione monolitica della divinità rendono ardua, in epoca contemporanea, la comprensione e l’accoglienza del pluralismo di immagini testimoniato dai racconti biblici (pp. 10-11). Gli autori costruirono le loro immagini di Dio a partire dal loro mondo e dai loro valori «testimoniandone volti diversi, anche dissonanti tra loro: essi ci offrono una molteplicità di sguardi che, gradualmente, danno volto a un unico Dio, ma senza farne un monolite, cioè senza che uno di essi escluda gli altri. Di Dio non possiamo dire “chi è”, ma possiamo sapere dove incontrarlo: nell’esperienza» (p. 158). Ci sono uomini che hanno incontrato Dio vivendo in situazioni violente; non poche pagine bibliche recano testimonianze di ciò, in tali casi  l’esperienza si è fatta parola. Il punto, inutile dirlo, è, a  tutt’oggi, di estrema attualità. La questione non è se si possa, ma come si debba incontrare Dio nella violenza (non rientra nell’ambito del libro di Tonelli occuparsi di martirio, anch’esso, però, almeno a partire dal secondo secolo a. C., si pensi a 2Mac, costituisce un particolare tipo di risposta a questa stessa questione).

«La violenza di Dio è, allora, la violenza dell’uomo, che immagina quel Dio come risposta alla propria sofferenza, al proprio desiderio di giustizia, ma anche di vendetta, alla speranza di salvezza, al senso di impotenza di fronte al male subito. Dio diviene così il senso ultimo degli eventi e l’unica soluzione per cambiarli. Accogliere la violenza divina non significa adorare un Dio violento, ma accettare che l’uomo possa vivere nella fede anche l’esperienza umanissima della violenza, ricordando sempre che il fine ultimo dell’intervento di Dio per l’uomo e della fede dei testimoni biblici sa andare oltre essa» (p. 163). In fin dei conti a essere davvero inquietanti non sono tanto determinate immagini violente di Dio, bensì le azioni violente compiute da uomini che credono di agire in nome di Dio. Anzi non va dimenticato che la prima opzione a volte  scongiura la seconda.

Qualche anno fa Gianfranco Bonola chiuse un suo articolo dedicato a discutere le tesi di Jan Assmann relative a rivelazione, monoteismo e violenza con queste parole: «E siccome oggi la posizione più progredita in termini morali è considerata quella di chi rifugge dalla violenza nei suoi rapporti interpersonali come pure nei confronti della natura, pare che ciò non possa rimanere senza effetti nei confronti della concezione della divinità. Quasi che il monito biblico: “siate santi, come io sono santo” (Lv 19,2; 20,7; 20,26), da esortazione rivolta agli uomini, si rovesciasse in un’esigenza posta alla figura divina» (Rivelazione, monoteismo e violenza. Variazioni con controcanto su temi di Jan Assmann, in «Humanitas» 5, 2103, 812). Il linguaggio scelto da Bonola è volutamente paradossale; tuttavia la teologia non dovrebbe trascurare simili sfide: Tonelli l’ha raccolta.

Piero Stefani


[1]  Anticipo la recensione a Debora Tonelli, Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2014, pp. 187, € 15,00 che uscirà sul n. 3 della rivista «Teologia»

 

578 – Immagini di violenza divina nell’Antico Testamento (04.09.2016)ultima modifica: 2016-09-03T08:00:49+02:00da piero-stefani
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