543 – Democrazia e religioni – Parte III e ultima – (22.11.2015)

Il pensiero della settimana, n.  543

 Democrazia e religioni 
(Parte III e ultima)

 

     All’interno della società pluralista ogni religione è consapevole dell’esistenza di altre comunità religiose. Tenendo conto di questo dato di fatto, è richiesto a ogni singola comunità di legittimare, anche in linea di principio, l’esistenza di questa pluralità: le religioni dovrebbero quindi impegnarsi in una ricerca che, partendo dal loro specifico, sia in grado di considerare il pluralismo religioso una ricchezza spirituale, culturale e civile della società nel suo insieme. Ciò implica che esse prendano le distanze da posizioni, comuni in epoche precedenti e non del tutto abbandonate neppure oggi, che rivendicano a una singola religione il godimento di una posizione esclusiva o quanto meno egemonica all’interno della società.

     Come stanno le cose rispetto alla triade definitoria: mito, rito e ethos? Nello spazio pubblico ognuno ha il diritto di professare e manifestare liberamente le proprie convinzioni, i propri principi e i propri racconti fondativi, di seguire le proprie peculiari prassi rituali, fermo restando il rispetto tanto della dignità umana quanto dei diritti degli altri membri della società. Pertanto le comunità religiose non devono tentare di imporre alla società nel suo insieme né la condivisione dei propri convincimenti, né il rispetto di determinate regole rituali. È invece auspicabile che convinzioni e prassi siano conosciuti il più largamente possibile all’interno delle varie società. Più articolato il discorso relativo all’ethos. Da un lato i comportamenti prescritti da ogni religione sono vincolati ai racconti fondativi e ai riti;  tuttavia l’ethos riguarda anche il modo di comportarsi nei confronti di persone e gruppi diversi da quello di appartenenza. Su questo terreno il confronto con i principi e le norme che regolano la convivenza civile si fa più diretto. Ciò non significa che sia precluso ai singoli gruppi di manifestare pubblicamente le motivazioni religiose che sorreggono i loro comportamenti (per esempio che gli uomini siano uguali tra loro perché tutti creati a immagine e somiglianza di Dio –  Gen 1,26 – o perché l’essere umano va considerato vicario di Allah in terra – Corano 2,30); tuttavia quando, all’interno di società pluraliste, gli esponenti delle varie comunità religiose partecipano a un pubblico dibattito volto a raggiungere decisioni collettive, non sono legittimati a ricorrere a fonti interne alla loro tradizione specifica e devono argomentare con un linguaggio proprio della polis.

     Le attuali società pluralistiche e multireligiose hanno definitivamente mandato in crisi il modello liberale di separazione tra stato e religioni fondato su una definizione riduttiva e astratta delle religioni intese come “fatto privato”  (per usare una formulazione di basso livello). La considerazione però vale anche per formulazioni più elevate come quella proposta, per esempio, da John Locke.  Essa definisce una chiesa come «una libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità al fine della salvezza delle anime». Le religioni non sono, o almeno non solo, questo. La «salvezza delle anime» non copre tutto lo spettro costituito dalla triade: mito, rito ed ethos.

     Al fine di svolgere, per cenni questa problematica post-liberale esaminiamo schematicamente quattro casi.

a) Cominciamo da un modello di separazione che non implica né una piena laicità dello stato né il divieto, alla francese, di manifestare pubblicamente e istituzionalmente la propria appartenenza religiosa. Negli Stati Uniti vige una separazione istituzionale tra religioni e stato; nessuna comunità religiosa riceve, dunque, finanziamenti pubblici ecc. Eppure il presidente giura sulla Bibbia, nomina Dio e a Washington c’è la National Cathedral. C’è separazione ma c’è anche la dimensione definita “religione civile”. Dio va nominato anche in sede pubblica. Si tratta di un Dio che non è specifico di una determinata religione (non è il Padre di Gesù Cristo, non è la Trinità) e che perciò è accolto anche da chi cristiano non è. Esempio simbolico: sul dollaro è scritto: «In God we trust». La disposizione di imprimere questa scritta sul denaro ha origine dal Coinage Act approvato il 22 aprile 1864. Esso autorizzava l’emissione di una moneta da 2 cents. L’anno successivo fu estesa a tutte le monete d’oro e d’argento. Nel 1956 il detto sostituì «E Pluribus Unum» come motto nazionale, da allora tutto il circolante è contraddistinto da «In God we trust».

b)  Può esistere una democrazia etnica? O etnico- religiosa? È il caso di Israele che si definisce stato ebraico e democratico. Nella dichiarazione d’indipendenza del 1948 si legge: «Lo Stato d’Israele sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come prodotto del popolo d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza , di lingua e di cultura…». In realtà, per essere uno stato ebraico (e non solo degli ebrei), Israele deve definire per legge chi sono gli ebrei e assegnare alle singole comunità religiose parte del diritto civile interno (riprendendo in tal modo il vecchio modello ottomano del millet). Di conseguenza il rabbinato è diventato  parte dell’amministrazione statale. Con tutto ciò i cittadini arabi hanno il diritto di voto, hanno partiti ecc. Essi sono però esclusi dal servizio militare e da quanto esso significa nello stato d’Israele (non solo “corsia preferenziale” per i concorsi pubblici ecc. ma anche e soprattutto parte integrante dell’ethos nazionale).

     Il tema cruciale posto a più vasto raggio dalla “democrazia etnica” è quello del ruolo svolto, per la definizione di un popolo e per delle istituzioni che lo governano, dal rapporto esistente tra etnie, lingua, cultura; in questo senso non è solo faccenda israeliana.

c) Iran. Il problema generale è quello dell’Islam definito come din e dawla «religione e stato», traduzione obbligata ma imprecisa, così come impropria è l’idea che nella storia ci sia sempre stata un’unione compatta tra questi due fattori. Il 1979 è data fondamentale del XX secolo. Allora avvenne una rivoluzione islamica che abbatté uno stato considerato molto forte anche perché appoggiato dagli USA. Essa ha portato alla ribalta l’islam sciita che, a differenza di quello dei sunniti, è dotato di una specie di clero. Dopo la rivoluzione si è costituita una repubblica istituzionalmente islamica  in cui  l’ultimo aggettivo trova riscontro in un sistema statuale retto da un ricorso alle elezioni a suffragio universale. Frutto di una rivoluzione questo particolare stato si legittima riproponendo a suo modo alcune strutture classiche della democrazia.  La costituzione del 2.12.1979 sancisce che al vertice dello stato vi sia il Rahbar (Guida Suprema, attualmente ‘Ali Khamene’i) nominato a vita dall’Assemblea degli esperti (86 teologi eletti dal popolo in carica per 8 anni); egli presiede il Consiglio dei Guardiani della costituzione e della sharia (12 membri da lui nominati) che hanno controllo sulle leggi e sugli organi dello Stato, compreso il Presidente della Repubblica (attualmente Hassan Rouhani). Quest’ultimo è anche capo del governo, è eletto a suffragio diretto con un mandato di quattro anni ed è rieleggibile per una sola volta. Organo legislativo è l’assemblea islamica formata da 290 membri, di cui 285 eletti con mandato di quattro anni da liste di “buoni musulmani” più 5 in rappresentanza delle minoranze religiose (la proporzione è di per sé eloquente).

d)  Italia. Rispetto alle religioni il problema, dal punto legislativo,  è duplice: da un lato è costituzionale mentre dall’altro si concentra sulla mancanza di una legge generale sulla libertà religiosa. L’ art. 7, come è noto, recepisce i Patti Lateranensi all’interno delle istituzioni repubblicane; dal canto suo l’art. 8 recita: «Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto a organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti con lo stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze».  I due articoli  pongono le varie comunità religiose su un piano non di parità. Per limitarci a due esempi ben diversi tra loro basti pensare da un lato allo statuto dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole  e, dall’altro, alle  ricadute sull’Italia legate a certe decisioni autonome della Santa  Sede (non ultimo il prossimo Giubileo straordinario). Dall’altro lato il modello delle intese –  pensato all’origine nei confronti delle minoranze religiose storiche presenti nel nostro paese (valdesi, ebrei) – stenta a regolamentare l’intera galassia di un universo ormai marcatamente plurireligioso. Ciò avviene anche per il fatto che il sistema delle intese implica da parte dello stato avere come interlocutore una determinata organizzazione unitaria con cui trattare e ciò non sempre avviene (il caso più rilevante è quello della galassia delle organizzazioni musulmane). Ecco perchè la soluzione più accettabile – e democratica – sarebbe quella di una legge quadro sulla libertà religiosa. Quest’ultima, pur essendo stata presentata molte volte nel corso delle varie legislature (compresa l’attuale), non è però mai giunta ad essere approvata.

Piero Stefani

543 – Democrazia e religioni – Parte III e ultima – (22.11.2015)ultima modifica: 2015-11-21T08:00:54+01:00da piero-stefani
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