526 – L’alleanza dell’arcobaleno (14.06.2015)

Il pensiero della settimana, n. 526

 L’alleanza dell’arcobaleno [1]

      C’è chi ha scritto che se l’arcobaleno durasse in cielo più di dieci minuti nessuno lo guarderebbe. Forse è esagerato. Si osservano anche le cose che sono stabilmente là davanti a noi. Il grande albero fuori dalla finestra, le curve delle colline, i profili delle montagne, il tremolar della marina. Tuttavia è vero che la transitorietà dell’arco iridescente induce a chiamare altri a vedere uno spettacolo di breve durata: «vieni, guarda c’è l’arcobaleno!». È lo stesso andamento che avviene per il rosseggiare improvviso di un tramonto, o si coglie l’attimo o tutto svanisce. Condividere con altri è un’istanza insita nell’animo umano. La fruizione della bellezza aumenta quando c’è la condivisione. Almeno queste erano le reazioni più comuni prima dell’odierno, dilagante tentativo di imporre un surrogato di stabilità trasferendo la realtà in immagine. Forse al giorno d’oggi la reazione più comune non è più quella di chiamare a raccolta qualcun altro; il gesto che scatta immediato è piuttosto di estrarre dalla tasca il proprio smartphone per scattare una foto.

La Bibbia fu scritta assai prima della comparsa persino della grandi macchine fotografiche a lastra. I mobili fenomeni atmosferici allora non erano fissabili nel mondo virtuale. In ebraico arcobaleno si dice qeshet: il termine esprime l’idea di una forma curva, ma non contiene in sé il senso del balenare. Un suo significato è quello di arco come strumento di guerra e non già nell’accezione architettonica del termine. In ogni caso, se applicato al fenomeno atmosferico, anche in passato aveva un carattere di breve durata.

     L’immagine più nota dell’arcobaleno è quella usata per suggellare il patto posto alla fine del diluvio: «Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra (…) L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,13-16). Berit ‛olam, «patto, impegno, alleanza stabile». Come mai per indicare la perennità la Genesi sceglie di riferirsi a una realtà transitoria? Perché, invece di guardare alla stabilità inconcussa delle montagne, si opta per l’iride evanescente? Le piste da seguire per cercare di rispondere a queste domande sono più di una. Il contesto generale è la fine del diluvio. Le acque si sono ritirate e come avvenne all’origine (Gen 1, 9) è di nuovo apparsa la terraferma. L’ordine delle cose è stato ripristinato. Tuttavia la pioggia tonerà di nuovo a cadere, anzi, se non lo facesse, la vita sulla terra cesserebbe. Si soccombe per eccesso, ma anche per difetto di precipitazioni. Quello che importa è perciò la misura. L’arcobaleno lo si scorge dopo il temporale e non già prima. L’arco che unisce cielo e terra indica inequivocabilmente che «passata è la tempesta». Quando lo si vede si è certi che, almeno per questa volta, le acque, secondo la promessa di Dio, non hanno devastato la terra (Gen 9,11).

     Secondo il testo biblico l’arcobaleno è un segno anche per Dio stesso: «io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna» (Gen 9,16). Può sembrare strano richiamarsi a un procedere post eventum. Per comprenderlo bisogna tener a mente il procedere proprio del primo capitolo della Genesi. Lì la successione è sempre la seguente: Dio dice ciò che sta per fare, lo compie, dà un nome a quello che ha creato e poi vede che è cosa buona (ki tov, Gen 1, 4.10.12,18.21.25 ). La valutazione della bontà del creato è a posteriori. Dio prima crea, poi approva. Così avviene pure ogni volta che Dio fa sopraggiungere il suo arcobaleno («pongo il mio arco sulle nubi»). Prima lo fa essere, poi lo vede (anche in questo caso ricorre il verbo yara‛), lo valuta come segno di alleanza.

     Mai come in questo caso la parola berit contraddistingue un impegno unilaterale da parte di Dio. Qui non si dà alcun accordo tra due parti che si obbligano reciprocamente a rispettare determinate clausole. È Dio ad affermare autonomamente: «Questo è il segno dell’alleanza che ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra». Per capire il passo occorre prestar attenzione alla parola «carne» (basar). Essa torna varie volte nella storia del diluvio, a cominciare dall’inizio là dove il Signore disse che il suo spirito non resterà per sempre nell’uomo perché egli non è che carne e i suoi giorni sulla terra saranno limitati (Gen 6,3). Nel lessico biblico il termine «carne» indica quindi l’essere vivente visto nell’ottica della sua precarietà, lo spirito vitale non resterà in lui «per sempre (le ‛olam). L’alleanza perenne (‛olam) stabilita con ogni carne non comporta che i singoli viventi restino per sempre sulla terra. La vita si rinnova perché gli individui cessano di esistere. Si comprende perciò perché il segno di questa alleanza sia costituito dall’arcobaleno che compare e scompare. Tuttavia sia nel suo apparire sia nel suo estinguersi esso comprova che le acque del diluvio non hanno avuto l’ultima parola: la vita, contraddistinta dalla fragilità della carne, è nelle condizioni di continuare su questa terra.

 Piero Stefani

[1] In prossimità dell’ imminente uscita dell’enciclica di papa Francesco « L’audato si’». Sulla cura della casa comunepropongo alcuni spunti di riflessione  su una delle pagine bibliche più “ecologiche“-

 

 

 

526 – L’alleanza dell’arcobaleno (14.06.2015)ultima modifica: 2015-06-14T15:29:49+02:00da piero-stefani
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