519 – Il genocidio degli armeni (26.04.2015)

Il pensiero della settimana, n. 519
 Il genocidio armeno[1]
       Taner Akçam è un sociologo e storico turco poco più che sessantenne. È stato uno dei primi accademici del suo paese a riconoscere e discutere apertamente del genocidio armeno. Nel  1976  fu arrestato e condannato a dieci anni di prigionia per aver discusso pubblicamente del genocidio; l’anno successivo riuscì a fuggire di prigione e a riparare nella Repubblica federale tedesca, dove gli venne riconosciuto l’asilo politico. Nel 1995 conseguì  un dottorato presso l’ Università di Hannover con una tesi dal titolo: Nazionalismo turco e genocidio armeno sulla base dei tribunali tra il 1919 e il 1922. In seguito l’argomento è stato sviluppato in un suo libro edito anche in italiano.[2] Attualmente Akçam è Visiting Associate Professor di Storia presso la University of Minnesota.
     I titoli della tesi e del volume di Akçam sono indicativi: una delle condizioni a monte del genocidio armeno è costituita infatti dal processo di modernizzazione nazionalistica che percorse l’Europa e alcune aree a essa limitrofe a partire dal XIX secolo. La crescita, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento, del nazionalismo tra le fila sia turche sia armene rimane un passaggio cruciale. La crisi del precedente sistema ottomano basato sull’esistenza di un determinato numero di rappresentanze religiose ufficiali (millet) è imputabile a molti fattori, non ultime le forti ingerenze delle potenze occidentali. Con tutto ciò, è innegabile che il nazionalismo laico dei Giovani Turchi – saliti al potere con la rivoluzione del 1908 – sia stato un fattore ideologico fondamentale per prospettare, nell’area ottomana, una convivenza civile fondata su termini secolari di natura etnico-nazionale. Da allora nazionalismo e panturchismo (attribuzione di un valore politico al legame etnico fra tutte le popolazioni di origine turca) hanno cominciato ad avere sempre più voce in capitolo. In effetti, la tensione tra armeni e turchi risaliva a prima del 1908; nel 1894 e nel 1896 i tentativi separatisti degli armeni erano stati infatti soffocati nel sangue. Resta comunque fuori discussione che il nazionalismo laico dei Giovani Turchi accentuò l’antitesi.
     Un’altra precondizione determinante all’effettuazione del genocidio armeno sta nel fatto che il conflitto scoppiato nel 1914 avesse assunto ben presto l’aspetto di guerra totale. Dopo pochi mesi si era colto di non essere di fronte a una guerra paragonabile a quelle precedenti. Non si trattava di una riedizione della ormai lunga conflittualità russo-ottomana. In concomitanza con l’inizio del genocidio, il 25 aprile 1915 ci fu lo sbarco anglo-francese a Gallipoli. Iniziò così una serie di sanguinose battaglie – 250.000 morti – che portò nel giro di qualche mese a una bruciante sconfitta da parte dell’Intesa. In quel periodo il regime turco si trovò circondato su tutti i fronti. La decisione di deportare gli armeni fu presa in questo clima di invasioni e di grandi perdite tra le fila turche impegnate sia a ovest (Gallipoli) sia nel Caucaso contro le armate russe e armene. Fu perciò il contesto della guerra totale a rendere possibile il genocidio attuato attraverso lo sterminio di massa di un intero gruppo etnico considerato potenzialmente pericoloso per un regime autoritario in stato di guerra.
     Queste due precondizioni da sole non sono sufficienti per spiegare il genocidio, e tanto meno attenuano le responsabilità turche. Esse però indicano la presenza di fattori storicamente incontrovertibili attualmente non al centro della modalità con cui si sta per lo più celebrando la memoria del genocidio. Qualche anno addietro il «riconoscimento» del genocidio da parte turca venne considerato da  molti un prerequisito  per l’ ammissione della Turchia all’Unione Europea. Allora il caso era non storiografico ma politico. Questo fronte è tuttora aperto. Nel centenario dell’avvenimento,  la questione  ha  però assunto connotati sempre più marcatamente religiosi. Si tratta di una componente tipica di questi nostri anni. Da un lato, infatti,  si afferma in modo esplicito l’idea che il martirio armeno sia espressione peculiare della prima nazione cristiana del mondo, dall’altro si è preoccupati di prospettare un’apologia  non solo del nazionalismo ma anche dell’islam. In definitiva, oggi il fattore religioso appare una componente qualificante più di quanto non lo fosse in un recente passato. Si tratta di una sfida lanciata in primis alle religioni stesse  le quali  si trovano sempre più esposte, al loro interno, al rischio di derive di tipo ideologico. In questo contesto si comprende quindi perché  le precondizioni storiche legate al nazionalismo secolarizzante e al contesto della Prima guerra mondiale giochino, oggi, un ruolo secondario nell’elaborazione della memoria del genocidio armeno.
     La grande storia è fatta di tante storie. Ci è rimasta la testimonianza di una vedova armena sulla deportazione della comunità di Bayburt avvenuta nel giugno del 1915. La donna fu deportata insieme alla figlia e ad altre 500 persone. Il prefetto turco della città augurò ai partenti «buon viaggio». Il convoglio era scortato da una quindicina di gendarmi ma, un paio d’ore dopo la partenza, fu assalito da briganti armati che in combutta con le guardie spogliarono i deportati di tutti i loro beni. Essi si trovarono ben presto ridotti alla fame. A un certo punto del viaggio furono superati da un convoglio diretto a Istanbul che trasportava una trentina di vedove di guerra turche. Una di queste donne prese la pistola di un gendarme e freddò un armeno. Alla vedova e alla figlia dell’ucciso venne allora offerta una scelta: rimanere nella colonna o seguire il convoglio turco, il prezzo della salvezza era la conversione all’islam.[3]
     Il 23 aprile la Chiesa armena ha collettivamente canonizzato « i suoi figli e figlie che hanno accettato il martirio come santi “per la fede e per la patria”». La storia ora riportata – esempio tra una moltitudine di vicende analoghe –  è forse una spia del fatto che, in  quei tragici frangenti,  dal punto di vista effettivo la possibilità di scelta valeva più per le donne che per gli uomini. La loro decisione di non convertirsi le portò alla morte. È un punto meritevole di essere indagato: non sarebbe conclusione di scarso peso  prendere atto di una particolare connotazione femminile presente nel martirio armeno.

Piero Stefani


[1]Anticipo la nota che sta per uscire sul n. 4 della rivista Il Regno-attualità . Il numero contiene vari altri, ampi contributi dedicati allo stesso tema.

[2]T.Akçam Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica; Guerini e Associati, Milano, 2006 (ed. orig. 2004).

 [3]Cf.  J. Winter, La Grande guerra, l’avvento dei massacri industrializzati e il genocidio degli armeni  in Storia dello Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo,a cura di M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, vol. I, Utet, Torino 2005, 201.

 

519 – Il genocidio degli armeni (26.04.2015)ultima modifica: 2015-04-25T09:14:07+02:00da piero-stefani
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