482 – La memoria non è la storia (15.06.2014)

Il pensiero della settimana, n. 482

 La memoria non è la storia

      La lettura del libro di Enrico Norelli, La nascita del cristianesimo (il Mulino, Bologna, 2014,  pp. 279, € 22,00), fa emergere dietro le quinte un problema che esso (al pari di altri testi affini) correttamente non pone. La lettura  di questo testo invita perciò a effettuare anche un gioco di sponda. Naturalmente non è l’unico modo di trarre profitto da questo solido volume di sintesi che affronta i primi due secoli dell’era cristiana. Lo si può leggere, con profitto, collocandolo solo sul proscenio dell’indagine storiografica.

     Il libro dà ragione di un punto nevralgico. Esso spiega perché la ricostruzione storica delle origini delle varie correnti, gruppi, movimenti, comunità dei seguaci di Gesù Cristo sia diversa dalla «memoria ufficiale» di quelle origini conservate nelle Chiese cristiane storiche e in particolare non collimi con quella proposta dalla Chiesa cattolica. Dato l’arco di tempo opportunamente scelto, l’indagine non copre l’intero processo; tuttavia attorno al 200 d.C. le grandi linee si erano già chiaramente individuate. L’operazione proposta comporta due fasi: a) la ricostruzione storica dei fattori e delle dinamiche in atto a partire da Gesù; b) la ricostruzione storica di come si siano formate le varie memorie e come alla fine se ne siano imposte alcune a scapito di altre. In tal modo si è reso normativo un determinato quadro delle origini cristiane.  In altre parole, si è affermata una visione del passato che coincide solo in piccola parte con quanto ci è dato di raggiungere attraverso l’indagine storica.
     Norelli opera da storico su entrambi i fronti; egli perciò non fa entrare in gioco visioni provvidenziali, teleologiche o deterministiche relative agli sviluppi avvenuti. In conformità a una corretta metodologia, lo storico presenta, quindi, come provvisorie e migliorabili le conclusioni a cui perviene (cfr. p. 17).
     Per non lasciare il discorso troppo nell’astratto, è bene scegliere una esemplificazione tra le molte possibili. Respingendo precedenti tesi più radicali, la recente ricerca storica (anche di matrice protestante) è ormai concorde nel ritenere plausibile il soggiorno di Pietro a Roma. Ma tutto ciò non comporta considerarlo quale primo vescovo della città. Ciò avviene non solo perché (come attestato anche dalla Lettera di Clemente di Roma ai Corinzi, fine del primo secolo) a quell’epoca non c’era un vescovo unico, ma anche a motivo del fatto che, alla fine del II secolo, Ireneo di Lione, riproducendo una lista di vescovi romani (pur da lui anacrosticamente intesi fin dall’origine espressione di un monoepiscopato) fa iniziare questo elenco con Lino e non già con Pietro. Lino sarebbe stato consacrato vescovo da Pietro e Paolo, ma proprio questa operazione indica la non trasmissibilità della funzione di apostoli e  la conseguente netta distinzione tra il loro ruolo e quello dei vescovi (che non sarebbero perciò qualificabili come successori degli apostoli). «Meno ancora il soggiorno di Pietro e Paolo e anche la fondazione della chiesa da parte loro –  il che (…) è certamente falso – potrebbe fondare un qualunque primato del vescovo di Roma» (p. 73). Inutile sottolineare la divergenza tra questa ricostruzione storica e il «Tu es Petrus» che campeggia alla base della cupola michelangiolesca.
     Eccoci così giunti alla domanda evocata fin dall’inizio. Lo storico procede con le sue metodologie e non si preoccupa  di prospettare visioni teologiche. Fin qui non c’è problema. Tuttavia la questione sorge inevitabile sull’altro fronte: nelle riflessioni teologiche ed ecclesiologiche: che peso occorre attribuire al fatto che la «memoria ufficiale» differisce in maniera radicale dalle ricostruzioni storiche? Il problema non è nuovo e ha avuto alcune linee di risposta. La più diffusa, ma anche la più inadeguata, è stata, probabilmente, quella apologetica. Essa cerca di smontare le ricostruzioni storiche più aggiornate e di riproporre visioni storiografiche collimanti con la visione tradizionale. L’operazione è equivoca in quanto si propone di trovare in ciò che per sua natura è provvisorio (la ricerca storica) un sostegno a quanto si colloca su un altro piano (in definitiva si tratta di una variante delle posizioni “concordiste” tra scienza – in questo caso storica e non della natura – e fede).
     La sfida va raccolta, ma collocata su un altro livello. Nella sua parte destruens essa deve prendere le distanze da ogni confusione tra diversi ordini di sapere. Il che comporta ammettere francamente che la «memoria ufficiale» si basa su fondamenti storici fragilissimi e non di rado insostenibili. Ciò comporta compiere una rigorosa distinzione tra storia e memoria. Più qualificante è però la pars construens. Essa consiste nel rifondare la «memoria ufficiale» riproponendo e approfondendo  l’idea di tradizione, il solo  luogo  in cui è dato collocare in maniera propria la memoria; operazione quanto mai necessaria, ma largamente trascurata dalle attuali ricerche teologiche ed ecclesiologiche scarsamente propense  sia sul lato “conservatore” sia su quello “progressista” a distinguere tra storia e memoria. Il primo infatti è dominato dall’apologetica, mentre il secondo di solito è propenso a cedere alle lusinghe delle visioni evolutive (le quali, per definizione, restano incapaci di distinguere tra storia e memoria).

Piero Stefani

482 – La memoria non è la storia (15.06.2014)ultima modifica: 2014-06-14T11:27:02+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo

Un pensiero su “482 – La memoria non è la storia (15.06.2014)

  1. Pingback: LA MEMORIA NON È LA STORIA | Brianzecum

I commenti sono chiusi.