450__Una glasnost per la Chiesa (03.11.2013)

 

Il pensiero della settimana, n. 450 

 

   Ora che il clamore mass-mediatico intorno al caso sollevato da Erik Zattoni si è momentaneamente calmato, è opportuno prendere in considerazione la vicenda che ha colpito la diocesi di Ferrara-Comacchio. Lo si farà, però,  in una prospettiva ecclesiale più ampia. Tuttavia all’inizio è bene richiamare i fatti (cfr. documentazione  in appendice al pensiero 448).

   Più di trent’anni fa un parroco, don Pietro Tosi, ebbe rapporti sessuali con una quattordicenne che restò incinta e mise al mondo un figlio. La responsabilità fu per decenni  negata da parte del sacerdote. Solo un perocesso civile, attraverso la prova certa del DNA, inchiodò don Pietro alle sue responsabilità. Il figlio Erik intraprese azioni per ottenere un risarcimento e la riduzione allo stato laicale del responsabile. A norma del diritto sia italiano sia canonico non si addivenne né all’una né all’altra misura o per la decorrenza dei termini o per la non obbligatorietà della misura canonica relativa al soggetto responsabile (ormai ultraottantenne). Erik, ricorre perciò ai mass-media. Attraverso «le Iene» (trasmissione satirica di Italia 1) snida l’attuale vescovo di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri, il quale reagisce all’aggressione mediatica in modo altrettanto aggressivio. La linea è confemata in un comunicato stampa della diocesi che dichiara l’assoluta estraneità del vescovo ai fatti. Il testo si chiude in tono ironico dicendo che Negri (entrato in diocesi solo nel marzo di quest’anno) non ha responsabilità per lo scoppio né della Prima né della Seconda guerra mondiale. Si moltiplicano le reazioni di sdegno da parte dell’opinione pubblica (invero più laica che cattolica). Per questi o per altri motivi, mons. Negri cambia sia linea sia tono: prima incontra Erik e sua moglie promettendo, a quanto è stato dichiarato da Zattoni, di impegnarsi a favorire un futuro incontro tra gli interessati e il papa; poi stende una lettera (riportata qui di seguito) accompagnata dall’invito a leggerla in tutte le chiese domenica 27 ottobre.

   Al di là del caso particolare, la vicenda pone in campo questioni cruciali per l’intera vita della Chiesa cattolica attuale.  Esse riguardano, in generale, il nesso tra parresia, mondo della comunicazione e conversione; mentre, più nello specifico, concernono la relazione esistente tra formazione del clero e sessualità. Il termine «parresia» – il parlare aperto e franco –  nella Chiesa d’oggi  avrebbe una portata sistemica paragonabile al ruolo riassuntivo assunto dalla parola  glasnost («pubblicità» nel senso di «dominio pubblico», spesso reso con il riduttivo «trasparenza») nella Unione Sovietica all’epoca di Gorbaciov. Il riferimento, al di là di ogni valutazione storica, nasce dal fatto che l’assunzione della parresia come stile di Chiesa comporterebbe una vera e propria rivoluzione. Proprio per questo la franchezza evangelica non è assunta come linea guida. Perciò, nonostante il palese stridore rispetto alle accelerazioni stilistiche introdotte da papa Francesco, si continua a far appello alla tradizionale prudenza della Chiesa (nata, cresciuta e consolidatasi in tempi pre-mass-mediatici).

   Prudenza significa in pratica cercare di non far scoppiare gli scandali. Il che significa tenerli nascosti il più possibile. Questa strategia di lungo corso non fa i conti con il mondo pervasivo e inquinante dei mass-media. Alla  fin fine la cosiddetta prudenza non fa altro che accumulare materiali pronti per essere divulgati in modo quasi sempre  improprio. Il fatto che vi sia troppo da tener nascosto è indice inconfutabile (come ha insegnato Kant) di mancanza di moralità pubblica. La sola autentica risposta spirituale agli scandali è la  conversione (è per questo  che sono necessari? cfr. Mt 18,7) , un atto che rende soggetti attivi e penitenti anche i responsabili. Su questo fronte si misura la diversità tra la sfera spirituale e quella pur necessaria del diritto (penale, civile o canonico che sia).

   Per quanto possa sembrare paradossale, nel mondo mass-mediatico la sola risposta efficace in mano alla comunità ecclesiale è quella antica della conversione. Per attuarla bisogna però prendere le distanze dall’atteggiamento presente nella schizofrenica frase scritta da mons. Negri: «L’analisi sulle colpe o sulle difficoltà interne ed esterne alla Chiesa è necessaria e doverosa, ma non ci darà alcuna forza. La vera forza verrà dall’andare fino in fondo nel nostro mandato sacerdotale, religioso e laicale». «Andare fino in fondo» significherebbe esattamente giudicare i fatti e rispondervi in spirito di conversione.

   L’altro aspetto di parresia ormai indilazionabile è l’apertura di un discorso franco relativo al rapporto tra sessualità e formazione del clero. Anche qui non bastano né la prudenza, né i pannicelli caldi del ricorso allo psicologo (o nei casi estremi allo psicanalista). Il tema, come è a tutti evidente, tocca il problema dell’istituzione stessa dei seminari prospettati come forma esclusiva di preparazione al sacerdozio. Si tratta di strutture ormai anacronistiche ed esposte al rischio di formare persone impreparate ad affrontare i compiti, sempre più complessi, che spetteranno ai presbiteri nella società contemporanea. Eppure nessuno, a quanto sembra neppure papa Francesco, apre a 360° il discorso su questo fronte (nello specifico della Chiesa di Ferrara-Comacchio la situazione è particolarmente grave a causa della politica perseguita ormai da tempo di raccogliere candidati giudicati non idonei da altre diocesi). I seminari sono istituzioni moderne, nel senso storico del termine, che non esprimono in modo permanente la tradizione antica. La Chiesa latina dovrebbe riscoprire la tradizione custodita dalle Chiese d’Oriente stando alla quale i presbeteri non sono soggetti a regole monastiche; ciò  salvaguardarebbe  il senso autentico sia del monachesimo sia del ruolo di un clero non a caso chiamato secolare.

  Non è affatto paradossale concludere che solo la riscoperta del vero senso della tradizione (che nulla ha da spartire con il tradizionalismo) sia in grado di tutelare, in questo e in altri campi, la Chiesa dal venir sempre più  macinata dal tritacarne mass-mediatico.

 

Piero Stefani

 

 Documentazione

 

Carissimi figli e figlie,

vengo a voi con un messaggio che intende comunicarvi i sentimenti profondi del presente ma soprattutto ad aprire umilmente e religiosamente i sentieri del futuro.

La terribile vicenda che è stata al centro di queste giornate, di cui portiamo il peso senza esserne causa, è una prova a cui dobbiamo rispondere per la verità della nostra vita cristiana e della nostra missione.

Ho già detto, in diverse sedi e anche di fronte a tutto il presbiterio, le cose che vi riassumo brevemente:

    La vicenda accaduta più di trent’anni fa è un avvenimento infame che non può essere in nessun modo sottaciuto o giustificato. Chi lo ha compiuto si è macchiato di un peccato innominabile.

    Ho già espresso alle vittime, in un primo incontro personale, la mia più profonda vicinanza e solidarietà cristiana, e con loro abbiamo posto le basi per un cammino futuro insieme.

    La volontà di negare pervicacemente qualsiasi responsabilità da parte del sacerdote, ha reso la Diocesi di allora ingiustificatamente incerta e contraddittoria nelle sue reazioni, impedendo di fatto qualsiasi provvedimento che forse anche solo il buon senso avrebbe suggerito.

    Solo in tempi recenti, durante l’episcopato di Mons. Paolo Rabitti, l’Arcidiocesi ha segnalato la vicenda alla Santa Sede, (dopo l’esame del DNA, prova evidente del gravissimo atto) da cui ha ricevuto le indicazioni alle quali mi sono tempestivamente adeguato, e che sono in atto.

Ora, alla luce di quanto detto, chiedo a me stesso e a voi: come ci interpella ciò che è successo? Siamo di fronte al mistero del male radicale, sia nelle sue origini che nelle sue conseguenze, a tutti i livelli.

Per questo credo che venga chiesto innanzitutto all’intera Chiesa Diocesana, come ho già indicato in questi mesi, di maturare la coscienza della propria identità ecclesiale e una nuova corresponsabilità missionaria.

Colpiti dai limiti intollerabili di alcuni di noi, non dobbiamo temere l’altrui o la nostra debolezza. Sempre consapevoli di dover chiedere perdono a Dio per le nostre infedeltà, dobbiamo però consegnarci in maniera totale al Signore Gesù Cristo, che vive in mezzo a noi e che costituisce l’unica nostra forza: “Tu Fortitudo mea”.

Questo recupero dell’identità ecclesiale non può avvenire se non in una comunione più profonda, leale ed appassionata con il Vescovo, che tiene le veci di Cristo, come scrive nelle sue indimenticabili lettere S. Ignazio di Antiochia.

Vivere sempre più a fondo il senso dell’unità con il Vescovo porta a recuperare l’unità stessa della vita della Chiesa locale: nella famiglia, nella parrocchia, nei gruppi, nei movimenti, nelle associazioni fino all’intera Diocesi. Il nostro popolo è chiamato in causa sulla sua identità, e la sua identità è consegnata all’unità e alla dipendenza.

Un secondo aspetto importante: questo recupero dell’identità si connette con un impeto missionario da mettere in atto. La stragrande maggioranza degli uomini che ci sono accanto in questa nostra città e Provincia vivono lontani dalla fede e da Cristo. A loro dobbiamo offrire in modo limpido e coraggioso la nostra testimonianza, affinché possano risentire la voce di Colui che “chiama ciascuno per nome”, come diceva S. Agostino.

E’ la missione che ci rafforza!

L’analisi sulle colpe o sulle difficoltà interne ed esterne alla Chiesa è necessaria e doverosa, ma non ci darà alcuna forza. La vera forza verrà dall’andare fino in fondo nel nostro mandato sacerdotale, religioso e laicale.

Indubbiamente occorrerà sempre di più, soprattutto nell’ambito della vita delle nostre parrocchie, un’autentica e fraterna vigilanza gli uni sugli altri perché le nostre comunità siano comunità sane, sia moralmente che religiosamente, consentendo così al Vescovo di esercitare pienamente la sua funzione di guida.

Credo allora che: riscatto dell’identità, rinnovata unità attorno al Vescovo, ripresa della missione in un clima di autentica benevolenza ecclesiale, senza gelosie, senza riserve, senza menzogne, ci permetterà di portare gli uni i pesi degli altri e così adempiere la legge del Signore.

Trent’anni fa si è sbagliato ma l’errore di allora si potrebbe ripetere ancora in futuro, se venisse trascurato questo mio invito.

Ecco la sfida che personalmente ho ricevuto da questi avvenimenti, e che vi trasmetto: non è la reazione analitica, ma l’incremento della mia responsabilità di pastore di questa Chiesa particolare e l’incremento della vostra responsabilità di ministri, religiosi, religiose e laici ad essere con me in questo cammino, che renderà la nostra Chiesa viva, una, protesa alla missione e piena di benevolenza al suo interno.

Se risponderemo così, queste cose orrende lasceranno progressivamente il posto all’aumento di comunione e alla benedizione per la vita.


Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa

 

 

 

 

 

 

 

450__Una glasnost per la Chiesa (03.11.2013)ultima modifica: 2013-11-02T10:39:00+01:00da piero-stefani
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