416__Valori e diritti (20.01.2013)

Il pensiero della settimana, n. 416

 

Prima che la crisi economico-finanziara catalizzasse su di sé quasi tutta la retorica politica, in Italia si parlava molto di valori. Periodicamente il discorso riemerge; si tratta però più di piccole polle d’acqua che di torrenti impetuosi. La constatazione sembra attestare la funzione strumentale assunta dal discorso sui «valori». Essi, si dice, dovrebbero essere permanenti; invece, nel discorso politico, l’appello ai valori entra in scena a seconda dei tempi e delle circostanze. In effetti nel nostro Paese per un certo periodo risultò inevitabile concludere che, essendosi dimostrata impraticabile la via di moralizzare la politica, a molti sembrò opportuno tentare di politicizzare l’etica (la triste stagione della Chiesa italiana dominata dalla figura di Camillo Ruini è riconducibile, in buona misura, a questi parametri).

Per quanto il prevalere di preoccupazioni economiche abbia fatto impallidire il ruolo pubblico svolto dall’appello ai valori, questi ultimi sono geneticamente collegati proprio alla sfera economica. Del resto «valore» è un termine a tutt’oggi proprio del lessico economico. Secondo l’abc dell’economia classica ogni oggetto, per trasformarsi in merce, deve essere dotato di un valore d’uso (la sua utilità) e di un valore di scambio (la contropartita che riesce a ottenere in una contrattazione). Tutto ciò è soggetto a variazioni: il valore d’uso muta a seconda dei tempi e delle circostanze (un’imbottita è più utile d’inverno che d’estate); sul valore di scambio ci si accapigliò a lungo ai tempi di David Ricardo e Karl Marx (teoria valore-lavoro); resta in ogni caso incontestabile il fatto che ci si muove nell’ambito costitutivo di quanto denominiamo merce, la quale, per sua natura, è soggetta tanto alla trattativa quanto  alle scelte personali dell’acquirente.

La storia del pensiero conferma, sia per il mondo antico sia per quello moderno, la dipendenza della dimensione etica del valore dall’estensione del significato economico del termine. Inoltre qualsiasi vocabolario definirà come «valore» ciò che deve essere oggetto di preferenza o di scelta. In effetti anche quando si parla di valori condivisi non ci si sottrae alla componente soggettiva; l’affermazione significa infatti che ognuno ha compiuto una scelta conforme a quella di tutti gli altri. Si condivide una decisione, non un obbligo; quest’ultimo può essere rispettato o eluso (e qui c’entra la componente decisionale), esso però non è frutto di decisioni concordemente assunte. Per indicare una dimensione non dipendente dalle scelte valoriali di ciascuno si  usano altre parole, per esempio «comandamento o precetto» se si è in un ambito religioso, «dovere» nel contesto di una visione etica di tipo assoluto, «diritto» se si è in una sfera giuridico-politica. È vero che in quest’ultimo caso è dato di ipotizzare il diritto di rinunciare ai propri diritti. Proprio per questo, in relazione a quelli considerati fondamentali, ci si è cautelati  ricorrendo alla qualifica di «inalienabili».

Ci si può chiedere perché, nel lessico ecclesiastico corrente, invece di parlare di diritti inalienabili si sia optato per un inedito discorso relativo ai valori non negoziabili. È abbastanza agevole rispondere a una prima questione: a parte l’epoca della piena fioritura conciliare, la Chiesa cattolica ha palesato un ripetuto disagio rispetto al problema della fondazione «laica» dei diritti umani.[1] Tuttavia questo giusto rilievo non risponde al perché si sia optato per un termine come «valore» accompagnandolo a una implicita memoria della sua componente contrattuale. Quando si definiscono inalienabili alcuni diritti, si è consapevoli che altri sono considerati alienabili. Per coerenza ciò dovrebbe applicarsi anche al discorso sui valori: se alcuni sono giudicati non-negoziabili, altri vanno ritenuti soggetti a contrattazione.

Nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2012) Benedetto XVI ha affermato: «Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa certamente non ha soluzioni pronte per le singole questioni. Insieme con le altre forze sociali, essa lotterà per le risposte che maggiormente corrispondano alla giusta misura dell’essere umano. Ciò che essa ha individuato come valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana, lo deve difendere con la massima chiarezza. Deve fare tutto il possibile per creare una convinzione che poi possa tradursi in azione politica».

Non avere soluzioni pronte mette al riparo Ratzinger da un integrismo rigido; considerazioni analoghe valgono per la lotta condotta assieme ad altre forze sociali. Tuttavia rimane lo scoglio di un’individuazione unilaterale di «valori fondamentali» giudicati non negoziabili. Perché non parlare di impegno votato alla ricerca di valori condivisi? Perché non accettare di parlare di diritti umani? Con tutti i loro limiti, riferirsi a «diritti» e a «doveri» appare civilmente e politicamente più consono che appellarsi ai valori. Almeno per l’Italia ciò corrisponderebbe maggiormente anche al dettato costituzionale.

Piero Stefani




[1] Cfr D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012

416__Valori e diritti (20.01.2013)ultima modifica: 2013-01-19T12:13:00+01:00da piero-stefani
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