Il Pensiero della settimana n. 275
Quando giunge il solstizio di inverno si vorrebbe poter rendere regola generale della vita quanto vale per la durata del giorno: allorché si tocca il fondo non si può che risalire. Ciò è vero per le stagioni e per il barlume di speranza che il loro succedersi riesce a infonderci, ma non sempre lo è per l’esistenza umana individuale e collettiva per la quale non è sicuro che si possa comunque risalire dai baratri in cui si è caduti.
Gli inverni possono essere rigidi o clementi, le estati piovose o torride, ma alle nostre latitudini l’estate più incerta sarà sempre più calda dell’inverno più mite. Non si sa esattamente cosa ci attenderà nei prossimi mesi se secco o umido, se pioggia o neve, se fango o ghiaccio, è comunque certo che le giornate, poco per volta, si allungheranno e il buio, la sera, ci piomberà addosso sempre un po’ più tardi: nel cuore dell’inverno cova la primavera. Il tempo procede con il suo passo inesorabile, nel quale gli imprevisti sono solo variazioni subite da un ritmo costante.
Da sempre il succedersi della stagioni è, rispetto all’esistenza umana, paragonato al susseguirsi dell’età. La volontà non può nulla: all’infanzia succedono l’adolescenza, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. Il susseguirsi delle età della vita sfugge alla libera decisione dei viventi. Nello spazio cosmico le cose stanno altrimenti, ma in quello esistenziale la relatività non ha corso. Un sola volta ci sarà dato di varcare il capodanno 2010. A noi è concessa la facoltà di festeggiarlo con cenoni e scoppi di petardi o con tombole e sobrie bevute di spumante; ci è dato persino di andare a letto presto la sera di S. Silvestro, non siamo però in grado di trattenere la venuta dell’anno nuovo.
La figura antica del vecchio saggio riposa sul fatto che la persona anziana che ha molto vissuto ha visto e appreso tante cose. Nella società odierna questa funzione è radicalmente ridimensionata. Ciò avviene per molte ragioni tra le quali primeggia il fatto che la rapidità dei mutamenti in corso consegna a una crescente estraneità la supposta saggezza dell’anziano il quale capisce sempre meno il mondo che lo circonda. Un tempo il vecchio, però, era anche figura di sapienza Al sapiente l’esperienza non basta; il suo specifico è cogliere il senso della realtà. L’anziano guardando al futuro ha per se stesso pochi progetti, nessuno dei quali a lungo termine. Per questa ragione un tempo il suo occhio sembrava più sapiente che pratico. Egli sapeva dischiudere i significati delle cose che accadono di per sé. Gli anni si succedono senza applicare alcun progetto. Qui non si cerca di trascrivere nel reale quanto prima si era programmato: le stagioni sopraggiungono per conto loro.
Nell’Italia di oggi le cose stanno per lo più in modo diverso. I giovani, a cui sarebbe più consono il progettare, sono sempre più spesso privati di prospettive future. Essi vivono perciò il presente in un incerto alternarsi di precarietà e di edonismo. Negli ultimi tempi un numero crescente di adulti – presi nelle spire della crisi economica – vive anch’esso sempre più il senso della precarietà: per chi vive sapendo che il proprio posto di lavoro è sempre a rischio, per chi è messo in cassa integrazione o per i disoccupati è arduo progettare un domani.
In Italia in relazione all’economia, alla politica, all’amministrazione pubblica e via dicendo, le classi dirigenti sono formate in maggioranza da persone anziane, mentre ai giovani tocca, non di rado, solo un ruolo assai più di immagine che di sostanza. Colui che, pensando a se stesso, non può più guardare molto in avanti, è chiamato a progettare e a investire su prospettive di lungo termine. Questa sfasatura può essere in pratica ricomposta solo in due modi: o avendo un senso della cosa pubblica così alto da mettere da parte ogni tornaconto personale (questa fu l’utopia di Platone), o, opzione più agevole, negando a se stessi e agli altri la propria condizione di anziano. Non stupisce perciò che un penoso giovanilismo, o quanto meno la cronica incapacità di fare un passo indietro, siano caratteristiche inestirpabili dell’attuale classe dirigente italiana. Non cogliendo la differenza tra il tempo delle stagioni e quello del progetto, i detentori del potere devono sempre riciclarsi, all’insegna di un linguaggio improntato a finto ottimismo. Quasi si trattasse dell’allungamento delle giornate, ovunque si devono perciò scorgere segnali di ripresa, mentre il peggio, per definizione, è sempre alle spalle.
Quando non è più sul proscenio, l’esponente della classe dirigente aspira a essere paragonabile almeno a un fiume carsico: prima o poi deve riemergere. La diffusa caparbietà di non tener conto delle età della vita e il capovolgimento in atto che tocca il modo di agire conforme alle varie generazioni sono segni non minori dell’inevitabile declino verso il quale, anno dopo anno, si sta avviando il nostro paese. Non a caso, basta guardarsi attorno per comprendere che l’Italia è caratterizzata da un grande passato, da un mediocre presente e da un incerto futuro. Come meravigliarsi che, su scala mondiale, sia tuttora il nostro passato civile e culturale a garantirci ancora un qualche residuo di credibilità? Fino a quando?
Piero Stefani
Trovo realistico, veritiero e lucido il tracciato analitico delle sue osservazioni sulla nostra società specie nell’aspetto più discutibile e discusso della fauna politica. Poichè costoro determinano o bloccano lo sviluppo delle Comunità locali e nazionali, mi chiedo perché non si rende possibile una inversione di tendenza con una più coraggiosa partecipazione dei giovani ad assumere (previa adeguata formazione) le responsabilità proprie della politica portandovi il vento della progettualità che precorre il futuro. Credo che anche tale formazione, senza vincoli e prescrizioni, dovrebbe essere una missione caritativa della Chiesa per soccorrere la Comunità in declino. Ma non si tratta di supplenza a mio avviso ma di quel dovere che il Concilio vaticano secondo indicava come maturazione dei laici ai quali è assegnata la responsabilità dell’alleggerimento della terra. In particolare la Gaudium et spes si occupa dei problemi del mondo e della sua sofferenza. Diversamente escludendo queste prospettive globali, non se ne viene fuori dal coacervo di contraddizioni che rendono la stessa globalizzazione, di cui tanto si parla, più frammentaria dei localismi precedenti che non conoscevano la dimensione né i rapporti planetari Perchè dunque la Chiesa sfugge questa responsabilità e si rifugia nell’esortazione sterile spesso non seguita neppure da buoni esempi da parte dei “pastori”?