218 – Perchè credi? (1) – (28.09.08)

Il pensiero della settimana, n. 218

 

  Quali motivi inducono una persona a compiere il salto nella fede? Essi non possono forse ricondursi al fatto di cercare una risposta consolatoria al dramma della condizione umana, rifiutando così  di accettare quanto invece va accolto? Perché non prendere atto del limite intrinseco di un’esistenza destinata a scomparire per la nuda ragione di essere venuta alla luce nel tempo? Quali esperienze il credente rivendica a sé dichiarando, in tal modo, che esse  sono precluse a chi non condivide la sua fede? In base a che cosa la persona di fede sostiene di poter accedere ad ambiti non alla portata di tutti? Più o meno questi sono stati gli interrogativi proposti da un amico dopo aver letto  Essere ultimi (pensiero n. 217).

Si tratta di una sfida autentica, vale a dire una di quelle che è vile rifiutare ed è arduo accogliere. Lo è perché le motivazioni addotte da un credente per dar ragione della propria fede sono, ai suoi stessi occhi, troppo deboli per giustificare l’impegno di una vita. Uscire dalla frammentarietà qui significa dar corso a presunzioni inaccettabili. Peraltro la povertà delle motivazioni è una dinamica che vale per molti comportamenti dell’umana esistenza: trasferite sul piano delle teorizzazioni, varie scelte da noi compiute (e dalle quali, il più delle volte, dipendono conseguenze non messe in preventivo) risulterebbero inadeguate. Eppure non le rinneghiamo.

Il pungolo di spiegare ad altri le ragioni della propria fede è giusto; tuttavia non è banale affermare che a esso non deve essere riservata una funzione discriminante. Negli strati più profondi del nostro essere è presente una realtà paragonabile alla rosa di Angelo Silesio che fiorisce perché fiorisce, che è se stessa perché è senza perché. Se la fede dipendesse dalle sue spiegazioni le seconde prevarrebbero sulla prima. Allora il primato, di fatto e di diritto, spetterebbe al logos. Teologia e apologetica la farebbero da padrone.

Ciò non toglie, però, che assumere i termini proposti da questa sfida mi indurrà a spendere molte parole che si allungheranno per più di una settimana.

Il «senza perché» è un modo diverso per dire quanto, nel linguaggio cristiano, si esprime con il termine grazia. La gratia gratis data significa che non sei tu ad avere  la fede, ma è la fede ad avere te. «Sono credente», o meglio, «sono sul cammino lungo il quale cerco di diventare sempre più credente e sempre meno incredulo» («credo, aiuta la mia incredulità» Mc 9,24) è espressione molto più idonea che dichiarare «ho la fede», quasi si trattasse di un possesso. Anche affermare di aver perduto la fede risente troppo del linguaggio afferente alla proprietà privata. Parlare di scelta, salto, grazia significa, in ogni caso, muoversi in un ambito originatosi dalla predicazione dell’evangelo. Qui la distinzione barthiana tra religione e fede rivendica la sua parte di verità.

In molti contesti storici e culturali (in passato anche alle nostre latitudini) l’appartenenza a una religione è semplicemente un aspetto del proprio far parte di una determinata società. Come il bimbo impara a parlare una lingua e assume abitudini,  usi e  costumi specifici senza che in ciò abbia voce in capitolo la sua scelta, così, per molto tempo, è avvenuto per la religione. Il fatto che le cose non stiano più in questo modo dipende anche da motivi storici. In un certo senso in Occidente siamo tutti eredi degli anabattisti, ossia di coloro che per primi, in età moderna, misero in campo  la separazione tra appartenenza alla società e adesione a una comunità di fede. Questa frontiera sarà sempre più la nostra. Grazia e scelta, nella loro irrisolta tensione, si trasformano da questioni teologiche proprie di vecchi manuali in esperienza quotidiana del credente.

 Gli anabattisti non sarebbero mai sorti se alle loro spalle non ci fosse stata l’originaria predicazione dell’evangelo. La fede è suscitata da un buon annuncio giuntoci dal di fuori. Rispetto a ciò Paolo di Tarso resta punto di riferimento insuperabile. Lo è quando dichiara che la fede dipende dall’ascolto (cfr. Rm  10,14-21), ma anche quando specifica sia che essa è figlia della stoltezza della predicazione sia che essa si contrappone ai segni chiesti dai giudei e alla sapienza ricercata dai greci (cfr. 1 Cor 1,17-25). Al centro di quell’annuncio c’è la croce di Cristo. Da qui nasce il paradosso del credente chiamato a dar ragione ad altri di una fede impossibile da ricondursi all’ambito dei segni e del logos. Il motivare la propria follia è strettamente legato al fatto che il credente  è invitato a dar ragione, con mitezza, della speranza che è in lui (1Pt 3,15-16). Si è abitati dalla speranza. Essa è paragonabile a un ospite e non a una proprietà. La speranza ci sospinge ad attendere come certo quanto è umanamente impensabile. Eppure se non si vuole essere settari  (rischio, come mostra la storia, intrinseco al cristianesimo) si è chiamati a cercare di motivare, con dolcezza, a chi ce lo chiede quanto è al di là di ogni nostra possibilità: si spera in quanto ancora non si vede (Rm 8,24). Per dire quello in cui si spera si deve, però, parlare il linguaggio della fede. Da qui la giusta sensazione, provata da molti non credenti, di essere di fronte a un discorso interno al credere stesso: «tu parli di cose che non posso capire o che posso comprendere solo se trasferite su un altro piano (antropologico, psicologico, sociologico, ecc.)».

Se il linguaggio dei valori è comprensibile a tutti (anche a quelli che vi contrappongono altri valori) è proprio perché esso, in definitiva, non ha a che fare con la fede. Tutti possono capire cosa significa che la vita vada rispettata fino al suo fine naturale; anche se metteranno in questione che quell’aggettivo sia confacente o avanzeranno esigenze legate all’autodeterminazione personale. Dire che la vita va tutelata non è il linguaggio della «follia». Se invece, di fronte a una persona ridotta da anni in stato vegetativo, si annuncia non già che la vita è comunque dono di Dio, ma che il Padre misericordioso, in virtù della morte e resurrezione di suo Figlio, redimerà quel corpo facendolo risorgere, allora il linguaggio diviene folle. Né stupisce constatare che gli uomini della religione pronunciano infinite volte le prime parole e tacciono le altre, proprie della fede, o, al più, le dicono solo sotto l’ombrello protettivo del rito funebre.

 A motivo della sua follia, l’evangelo è legato da sempre all’annuncio e alla testimonianza. Esse hanno ragion d’essere solo perché la fede è una realtà che non è di tutti. Se fosse un dato comune non avrebbe senso annunciare, né ci sarebbe motivo di testimoniare. La declinazione missionaria, proselitista o, sull’altro versante, apologetica di questa condizione è che la fede non è di tutti ma è per tutti. A partire da questo convincimento è impossibile evitare, volenti o nolenti, di agire in un modo che lascia trapelare la superiorità propria e l’inferiorità altrui. L’opzione settaria del tema, invece, è che la fede non è di tutti perché è per pochi e sono solo costoro quelli che si salvano. Non è difficile capire perché quella missionario-apologetica e quella settaria sono state (e sono) le due grandi opzioni di casa nel mondo: sono le meno paradossali. I cristiani  sono missionari o settari quando guardano agli altri allo stesso modo in cui i ricchi si comportano con i poveri: tra loro qualcuno li aiuta, altri li disprezzano. Ci si rivolge invece all’apologetica quando ci si sente attaccati e si vuole dimostrare agli altri di aver ragione. (Sia detto di passaggio, gli ostracismi riservati alla teologia cristiana delle religioni sono una spia di quanto sia arduo liberarsi dai residui missionari, apologetici o settari.)

Vivere il paradosso della fede nell’epoca contemporanea esige di rendersi conto dello spessore effettivo delle ragioni della non credenza; in secondo luogo domanda di non chiudere gli occhi sulla relatività culturale della propria religione, essendo però, nel contempo, consapevoli che, senza un riferimento a una comunità religiosa, nessun credente sarebbe mai giunto alla fede; esige, infine, di testimoniare in modi non proselitistici, settari o apologetici l’alterità della fede e della speranza che  abitano il credente.

Piero Stefani

218 – Perchè credi? (1) – (28.09.08)ultima modifica: 2008-09-27T06:50:00+02:00da piero-stefani
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