83 – Memoria, storia, identità (23.10.05)

Il pensiero della settimana, n. 83

 

«La storia comincia là dove finisce la memoria» (Maurice  Halbwachs). Frase tanto vera quanto troppo spesso dimenticata. La memoria è selettiva. Salva dall’oblio qualche frammento per isolarlo e renderlo significativo e non di rado imperativo. Per questo motivo è spesso collegata alla promessa e al comando: «non ti dimenticherò mai», «ricordati di me». Rispetto a certi eventi, situazioni o valori incombe il compito di ricordare. Come è stato detto la memoria è fedele nella misura in cui noi, a nostra volta, le restiamo fedeli. Si parla di nuovo il linguaggio del comando. Su un altro versante la memoria si riveste delle tinte autunnali della nostalgia e del rammarico: «mi ricordo che quando eravamo giovani…», «mi ricordo che quando lei (o lui) era con me…». Questo stato d’animo nasce perché in un certo senso viene annullato tutto quanto si trova nel mezzo: esistono solo due punti di riferimento, quel determinato passato e questo specifico presente. La memoria fa salti. Sull’uno e sull’altro versante essa è sempre, come vuole Agostino, il presente del passato. In un crinale è il passato che si riveste di presente nella imperatività che impegna verso l’avvenire, nell’altro è il presente a indossare i panni del passato proiettandosi all’indietro. Quanto vale per la memoria individuale si ripropone sostanzialmente identico anche per quella collettiva. A un lettore della Bibbia, a tal proposito, tornano alla mente i modi in cui il popolo d’Israele ha conservato memoria dell’esodo. Lì sono ben udibili i suoni sia del comando sia della nostalgia.

La storia è descrittiva e diacronica. Essa deve ricostruire ordinatamente tutti i passaggi. Se inverte il prima e il dopo viola la regola base del proprio mestiere. Il grumo sincronico di passato, presente e futuro proprio della memoria qui non trova ospitalità. Il passato deve restare tale, vale a dire va colto in tutta la distanza che lo separa da noi. Il tramezzo che ci divide da esso non può venir assottigliato. Non solo: gli avvenimenti colti nella dimensione storica vanno interpretati non con quanto li segue, bensì con quel che li precede. Occorre perciò spingersi ancora più in là, è infatti proprio della spiegazione storica cercare di comprendere il dopo con il prima. Invertire gli ordini di fattori equivale a violare lo statuto fondamentale della disciplina.

Vi è un termine oggi accreditato di un valore largamente positivo. Si tratta della parola «identità». Sarebbe opportuno, anzi necessario, privarla dell’ingiustificata aura di rispetto che la circonda. Un modo per farlo è di indicare che essa, almeno quando pretende di situarsi in un ambito collettivo, si regge sull’equivoco di attribuire in modo arbitrario alla storia i caratteri propri della memoria. I cultori dell’identità trasferiscono di peso alla storia la selettività, l’imperatività, la nostalgia propri della memoria. Non sorprende perciò che l’identità di popoli e nazioni sia in realtà un’invenzione frutto della volontà di scegliere nella gran rete della storia alcuni pesci e di gettarne via molti altri. Isolando eventi, lasciando consapevoli vuoti, evidenziando determinati comportamenti e valori passati e stendendo un velo di oblio su molti altri si costruisce una struttura memoriale dotata della immotivata pretesa di essere basata su fondamenti storico-valoriali (di passaggio, proprio questo equivoco permea da un capo all’altro l’ultimo libro di Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005. Sono pagine ispirate al «primato civile e morale dei polacchi». Non mancano passaggi orientati a gettare improbabili fondamenta teologiche al patriottismo – cfr. pp.83-91 – e all’identità –  cfr. pp. 171-172) . Così facendo non solo si fa cattiva storia, ma si riveste pure la memoria di una presunta consistenza fattuale che non le si addice.

Di frequente e a ragione si è fatto notare come l’identità corra il rischio di aver bisogno, per sostenersi, di ricorrere alla contrapposizione e quindi all’aggressività. Ingannevolmente pensata in una dimensione fattuale, l’identità viene presentata come un valore da difendere. È prospettata sul piano dell’«essere» (storia), ma in realtà la si gioca tutta sul livello del «dover essere». I nostri orecchi rimbombano di moniti pressanti volti a salvaguardare la nostra identità. Occorre innalzare baluardi difensivi. In ogni angolo sbucano insidie. Ovunque vi sono minacce. Bisogna armarsi per tutelare se stessi. Per questo motivo i difensori dell’identità sacralizzano sempre i loro morti, specie se caduti in battaglia (in proposito non fa eccezione Giovanni Paolo II). La memoria vuole salvare dall’oblio un nome, un volto. Essa tenta di strappare alla morte quanto da lei ghermito. La memoria cerca di dar vita ai morti. Le presunte identità storiche si reggono invece sui morti. Si possono tenere alcuni nomi eroici, ma essi sono solo l’emergere di un’onda più alta da un mare fatto della medesima acqua. Quel che conta è che siano caduti. Gli altari della patria hanno nel loro sacello un milite ignoto.

Si dirà: è scelta antica e religiosamente qualificante far memoria dei martiri. Lo era, per conservarli vivi nel ricordo e per guardare a loro come caparra di una vita avvenire che non conosce tramonto. Le ossa dei martiri erano pegno di resurrezione. Tutt’altro è sostenere che i martiri sono la nostra memoria. Quanto rende equivoco la volontà di qualificare il Novecento il secolo dei martiri non è la franca denuncia della gravità delle persecuzioni subite, ma la scelta di rendere i martiri parti integranti di una memoria identitaria.

 Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

83 – Memoria, storia, identità (23.10.05)ultima modifica: 2005-10-22T08:50:00+02:00da piero-stefani
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