Il pensiero della settimana

550 – Il piacere della lettura (10.01.2016)

Il pensiero della settimana, n. 550

 Il piacere della lettura

     Come ci si accosta a un libro? Ci fu un tempo in cui il libro era ritenuto una porta di accesso al vero più larga della stessa esperienza diretta. Ciò riguardava in primis i libri sacri, ma, a più vasto raggio, valeva anche per tutte le altre forme di sapere. Nel Medioevo la fisica si studiava leggendo Aristotele, i cieli erano scrutati con gli occhi di Tolomeo e il medico diventava tale compulsando le opere di Galeno. Perché guardare alle cose se la verità era già contenuta nei libri?

     Questo modo di leggere, con la parziale eccezione dei libri sacri, è tramontato da tempo. Quando si parla di lettura la prima reazione psicologica della gente è – (ma in una certa misura, vista l’attuale scarsità di “lettori forti“, si sarebbe tentati di  dire “era”) legata al piacere e non al vero. Ci è dato di dimostrarlo anche percorrendo la via inversa: il modo più radicale per bollare un libro è sostenere che annoia. L’indice soggettivo dei libri proibiti parla questo linguaggio.

      Quando si è presi dal fascino della lettura, tra il libro e il suo lettore si instaura un rapporto affettuoso e intimo. Leggere significa star soli con il proprio libro: gli occhi importano assai più della voce. L’espressione «i miei libri» riguarda la proprietà in larga misura solo nel caso del collezionista o del bibliofilo, per il lettore appassionato essa indica invece una collezione di esperienze, di ricordi e di immagini che poco hanno da spartire con il possesso materiale.

      «Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto». La frase è di Marcel Proust. Essa proviene non dalla monumentale Recherche du temps perdu, ma da un testo assai più breve intitolato Sur la lecture, non di rado tradotto in italiano con il titolo: «Il piacere di leggere» (o giù di lì).  Quello della lettura è un tempo ormai perduto per gli adolescenti di oggi? Nella stragrande maggioranza dei casi gli adulti risponderebbero in modo affermativo; ma i giovani possono smentirli ogni volta che, per proprio conto, vanno alla ricerca del libro perduto.

    Altrove Proust aveva scritto: «in realtà ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è stata una specie di strumento ottico offerto al lettore per consentirgli di discernere ciò che, forse, senza quel libro non avrebbe mai potuto intravedere di sé». Non c’è dunque un lettore che fa scaturire significati nuovi da un libro, ma un libro che fa emergere significati nuovi in un lettore che legge se stesso. Il leggere è divenuto un dialogo interiore dell’io con se stesso. Una attività silente e solitaria. In un suo recente articolo Daniel Pennac ha scritto: «L’uomo vive in un gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura per lui è una compagna che non prende mai il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire» (La Repubblica, 2 settembre 2015).

     È lapalissiano affermare che ogni libro, sia esso sacro o profano, fino a quando rimane chiuso non è in grado di comunicare alcunché. Finché sono riposti in qualche scaffale i libri si collocano tra «color che son sospesi». Davanti a loro si dischiudono due possibilità: uscire per essere letti o essere consegnati a un inferno fatto non di fuoco ma di polvere. Ogni lettore dà perciò vita a una pagina che altrimenti resterebbe morta. Tuttavia sappiamo che la vita si presenta in molti modi: alcuni belli, altri grami. Ogni pagina scritta, se il suo lettore la fraintende, corre il rischio di nascere deforme. L’eventualità sarebbe minore se il libro, oltre a essere letto con gli occhi, venisse anche commentato e discusso a più voci. In altre parole, se le biblioteche diventassero dei biblioforum.

Piero Stefani

 

550 – Il piacere della lettura (10.01.2016)ultima modifica: 2016-01-09T10:20:26+01:00da
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