Il pensiero della settimana

414_I Magi e Simeone (06.01.2013)

 

Il pensiero della settimana, n. 414

 

 

     I Magi che giungono dall’oriente per adorare colui che qualificano il re dei Giudei sono presenti solo nel vangelo di Matteo (2,1-12). Nel suo senso originario l’episodio vuole probabilmente indicare la subordinazione della religione astrale (o cosmoteistica) simboleggiata dai Magi alla storia biblica della promessa. Nella tradizione cristiana l’Epifania è poi diventata la solennità volta a celebrare una manifestazione che viene dall’alto per essere rivolta a favore delle genti. Da un lato i Magi offrono doni simbolici della figura di Gesù Cristo – secondo la tradizione regalità (oro), divinità (incenso) e umanità sofferente (mirra) – mentre, dall’altro, noi, non ebrei, in questo giorno riceviamo il dono della fede.

     Per comprendere il senso più autentico della festa che cade il 6 gennaio bisogna riconoscersi appartenenti alle genti. Per sapersi tali occorre riconoscere in prima istanza l’elezione di Israele. Nessuno si coglie come «gentile» ai propri occhi. La qualifica è relativa: si appartiene alle genti in quanto si è non ebrei. In questa solennità c’è una centratura non sostituibile. Il moto è centripeto. Giustamente la liturgia, nella prima lettura, parla dell’offerta compiuta dalle genti che vanno a Gerusalemme ( Is 60,1-6). Si tratta di una pretesa giustificabile solo sul piano della fede e della teologia che da essa deriva, mentre è improponibile su quello delle culture, ambito in cui vige una traducibilità reciproca priva di un centro assoluto.

     Il ricco vangelo lucano dell’infanzia non ricorda i Magi. In esso vi è però un episodio – dall’andamento, per così dire, sia centripeto sia centrifugo – che esprime in maniera del tutto appropriata il senso autentico della solennità dell’Epifania. Si tratta del cantico recitato ogni sera a compieta, tuttora noto con l’espressione latina di Nunc dimittis  (Lc 2,29-32). La breve composizione ha molti significati. Se la si guarda soggettivamente dalla parte di Simeone, colui che l’ha pronunciata, si tratta di un canto di congedo di colui a cui è stato concesso di vivere fino a vedere realizzarsi quanto da lui lungamente atteso: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo/ vada in pace, secondo la tua parola. /poiché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30). Se lo si osserva invece in un’ottica oggettiva, il culmine del cantico lo si trova nei successivi tre versi, quelli conclusivi, che descrivono i contenuti della salvezza.

     La loro piena comprensione passa attraverso problemi di traduzione. L’attuale (2008) proposta dalla CEI è la seguente: «… la tua salvezza / preparata da te davanti a tutti i popoli: /luce per rivelarti alle genti / e gloria del tuo popolo Israele» (Lc 2,3-32). Quella precedente (1971) – ancora nell’orecchio per via della consuetudine liturgica – diceva invece: «luce per illuminare le genti». Il testo greco, di difficile resa in italiano, è diverso dall’una e dall’altra. Esso parla infatti  di una salvezza preparata di fronte alla faccia di tutti i popoli (pantōn tōn laōn) «luce per la rivelazione delle genti (apolalypsiv ethnōn) e gloria del tuo popolo (laou) Israele». Abbiamo dunque un primo orizzonte definito dall’espressione «tutti i popoli» che poi si articola in due gruppi,  il primo definito «genti» (i non ebrei),  il secondo, «popolo», riferito a Israele. Il significato più autentico di questi versetti è che la salvezza apparsa in Israele – è questa la sua gloria – rivela alle genti il loro essere tali, cioè svela loro sia di non essere Israele sia di ricevere la salvezza da colui che è venuto da quel popolo. Il quarto Vangelo dirà tutto ciò affermando che la «salvezza è dai giudei» (Gv 4,22). Ribadiamolo, le genti non sono nelle condizioni di definirsi tali ai loro stessi occhi, possono farlo solo in riferimento a Israele. Ciò può avvenire solo per rivelazione.

     Dietro al cantico lucano vi sono vari sottotesti biblici. I più evidenti sono quelli che provengono dai canti del Servo contenuti nel rotolo di Isaia: «ti ho formato e ti ho stabilito / come alleanza del popolo   (‘am, LXX, ghenos) / e luce delle genti (goyim, LXX ethnē » (Is 42,6); «ti renderò luce delle genti (goyim, LXX ethnē), perché tu porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Gesù è Lumen gentium solo perché profondamente radicato in Israele. La costituzione conciliare sulla Chiesa tiene ben saldo il riferimento a Gesù («Luce delle genti è Cristo» LG, 1,1), mentre non elabora sufficientemente il dato di fede secondo cui solo chi è da Israele può svelare alle genti il loro statuto.

Meno diretto, ma ugualmente pertinente, è riferirsi a un altro passo di Isaia che parla del banchetto escatologico preparato dal Signore sul monte Sion, quando egli «strapperà il velo che copriva la faccia di tutti i popoli (‘ammim, LXX ethnē) e la coltre distesa su tutte le genti (goyim, LXX ethnē)» (Is 25,7).  

     Nel tempio di Gerusalemme, sulla collina di Sion, Simeone riprende quelle parole dichiarando che  è giunto il tempo in cui a Israele è rivelata la sua gloria in funzione delle genti. Si tratta di una gloria connessa non a un’autoaffermazione di sé bensì allo svolgimento di una missione a favore degli altri.

Piero Stefani

 

 

414_I Magi e Simeone (06.01.2013)ultima modifica: 2013-01-05T10:43:00+01:00da
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