Il pensiero della settimana

367. Cooperazione e integrazione (01.01.2012)

Il pensiero della settimana, n. 367

  

Quando un anno dà la mano al successivo e inizia il mese del Giano bifronte si è invitati da un lato a stilare bilanci e dall’altro a guardare al futuro. L’Istat lo ha fatto in  grande, proiettandosi in un tempo in cui la maggior parte di noi non ci sarà più; peraltro chi giungerà a quella data, di sicuro non si ricorderà di una previsione risalente a più di mezzo secolo prima. Secondo questi calcoli, nel 2065 gli immigrati nel nostro paese saranno 14,1 milioni  pari al 23% della popolazione. Per gli statistici la forza attrattiva dell’Italia non subirà incrinature per decenni.

Tutti parlano di crisi economica, ma quando si tocca il tasto degli immigrati questa voce tace di colpo. Anche l’aspetto giuridico è sussurrato. A prevalere è il discorso –  altrove ritenuto secondario (se non superfluo) – legato alla cultura. Nelle ultime ore di gestazione del suo governo, Monti ha inserito nella sua squadra (così l’avrebbe denominata il suo predecessore), Andrea Riccardi. Inevitabile pensare che alle spalle di questa nomina ci siano state pressioni della Segreteria di Stato vaticana ancor più che della CEI. Per fargli posto è stato infatti inventato il ministero della Cooperazione internazionale e dell’integrazione. Dicastero senza portafoglio i cui finanziamenti dipendono da quello degli Esteri. La logica istituzionale avrebbe  richiesto che i temi della cooperazione fossero affidati a un sottosegretario (o, al più, vice-ministro) della Farnesina; di contro, le esigenze politiche hanno richiesto che tra i tecnici ci fosse  un certo numero di cattolici “ufficiali”. Come si è subito capito, la funzione del neoministro è, in definitiva, mediatica. Il titolare degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, è un volto praticamente sconosciuto; dal canto loro la barba e la parola del fondatore della Comunità di Sant’Egidio riempiono i media. Il tema principe dei suoi interventi riguarda i cattolici e la politica. Solo per dovere di ufficio ogni tanto gli si chiede qualcosa sulle competenze specifiche del suo ministero.

Il fatto di tenere assieme cooperazione internazionale e integrazione denota il carattere ideologico del neonato ministero. Anzi, se si volesse essere radicali, l’accoppiata sembra una spia della scarsa volontà di risolvere sul piano giuridico il problema degli immigrati. Se le cose stessero altrimenti, la parola spetterebbe, infatti,  al dicastero degli Interni. Dato che riguarda l’Italia, l’integrazione appare in prima istanza affar suo. In tal caso bisognerebbe però affrontare di petto il nodo della cittadinanza. In un mondo globalizzato restare fermi al jus sanguinis è segno di arcaismo giuridico e di immaturità democratica ormai inaccettabili. Molti se ne sono accorti. Non a caso sull’argomento c’è sia una campagna per i diritti della cittadinanza sia una proposta di legge di iniziativa popolare. La Federazione delle Chiese evangeliche in Italia si sta impegnando fortemente su questo fronte. Non va dimenticato che la chiara presa di posizione espressa da Napolitano nel novembre scorso fu pronunciata mentre il Presidente stava ricevendo una delegazione protestante. È lecito, anzi doveroso, discutere i contenuti della proposta di legge e può ben darsi che vada migliorata. L’importante è che il tema sia stato posto sul giusto binario. La condizione di straniero è fondamentalmente giuridica, hic Rhodus hic salta. Non a caso qui i documenti sono determinanti, spesso in maniera esistenzialmente inaccettabile.

La vita di milioni di persone muta radicalmente se si ha o non si ha permesso di soggiorno, se si è comunitari o extracomunitari, se si è privi o sprovvisti di cittadinanza italiana e così via. I temi dell’integrazione passano su queste frontiere. Colto al massimo delle sue potenzialità, il problema della cittadinanza diviene espressione di una civiltà giuridica – di matrice illuminista – che vede nella persona umana e non nel gruppo il soggetto primo di un diritto dal respiro cosmopolitico.

Intervistato sul Corriere della sera del 27 dicembre scorso, il cattolico Riccardi parla soprattutto di prospettive politiche. Come ampiamente provato dall’eco avuta dalle sue parole, era questo il tema vero del suo intervento. Verso la fine, per convenienza,  l’intervistatore gli pone una domanda sul ministero di sua competenza. Ciò ha fornito l’occasione di parlare d’integrazione: «Tanti risiedono in Italia ma non hanno origine italiana. Come costruire il nostro Paese? Come un Libano di comunità giustapposte? O vogliamo integrare queste comunità che spesso hanno anche voglia di farlo? (…) È decisiva l’interazione tra storie e culture diverse nella comune identità nazionale. Occorre lavorare partendo da giovani e scuola». Non una parola sulla cittadinanza, non un riferimento giuridico; tutto si muove su un piano culturale «comunitaristico» (per quanto non libanese).

Come dimostrano tanto le immortali pagine dei Promessi sposi, quanto la cronaca più recente, l’Italia è sempre stata ed è un paese di corporazioni legali e illegali. Molti gruppi etnici, specie i più forti (si pensi ai cinesi), si sono ben inseriti in questa logica che mescola, per sua inestirpabile natura, privilegi e «soperchierie». I gruppi più deboli, sfruttati dai più forti, si rifanno su quelli che stanno ancora sotto di loro. Non è raro che in  Italia gli immigrati dal Bangladesh siano sfruttati dai pakistani. Parlare di cittadinanza comporta non solo affermare diritti ma anche prospettare doveri.  Quando si è estranei ai primi lo si è anche ai secondi. La cultura è un bene grande, ma diviene un inganno se è chiamata retoricamente a supplire la civiltà giuridica. Senza dubbio anche quest’ultima va ripensata; vanno però tenuti fermi i capisaldi che  rappresentano alcuni degli apporti più alti offerti, nonostante le sue tragiche incoerenze, dall’Occidente al mondo intero.

Poi c’è l’economia. In tempo di crisi a pagare sono innanzitutto i più deboli e i meno tutelati. Tra essi vi è una percentuale non indifferente di immigrati. Molti di essi sopravvivono grazie all’illegalità. Se ci fosse una lotta efficace contro l’evasione fiscale sarebbe colpito anche il lavoro nero; in tal caso le condizioni di tanti immigrati peggiorerebbero e non di poco. Già sono numerosi coloro che si sono pentiti di essere giunti in Italia; tuttavia parecchi fra di loro hanno tagliato troppi ponti per poter tornare indietro. Se la crisi economica diverrà ancor più drammatica si andrà incontro a un numero crescente di proteste e di disordini sociali, alcuni dei loro protagonisti saranno immigrati. Le previsioni dell’Istat sono tutte da dimostrare, chi vivrà vedrà. Non è poi così importante saperlo; è decisivo invece accorgesi, per tempo, che ci sono argomenti non meno urgenti della crisi finanziaria.

Piero Stefani

 

 

367. Cooperazione e integrazione (01.01.2012)ultima modifica: 2011-12-29T21:50:00+01:00da
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