Il pensiero della settimana

315. Tra il Sinai e Sichem

Il pensiero della settimana, n. 315

 

     Proclama il comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Cosa significa quel «di fronte a me»? Se volessimo compiere un calco letterale (eccessivo) dell’ebraico, si dovrebbe  tradurre così: «non saranno a te dèi altri sopra il mio volto». Vale a dire: non bisogna sovrapporre altro al volto del Signore. La formulazione ci aiuta a capire che il comandamento non va inteso né come un imperativo di uscire dall’idolatria, né come un invito a scegliere tra Dio e gli dèi. La constatazione  che il Signore, all’inizio del Decalogo, si presenti come colui che ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto comporta che Egli si sia già manifestato. Il precetto quindi non va inteso nel senso che Dio, rivolgendosi al popolo ebraico, gli dica: «adesso non devi più essere idolatra e devi credere al Dio unico». Questa fede c’era già. Per dirla in breve:  il comando è rivolto a monoteisti e non già a politeisti o a pagani. L’idolatria di cui parla il Decalogo va compresa, per usare termini contemporanei, come una degenerazione, o, se si vuole, un tradimento della fede.

      Il «non avere altri dèi di fronte a me», significa non offuscare la fede nel Signore costruendo idoli che lo deturpano. L’idolatria è una tentazione perenne di ogni credente nel Dio vivo e vero.  Quali siano gli idoli propri di coloro che accettano il patto, può essere riassunto in una  formula: è tutto quanto offusca l’immagine di Dio liberatore che chiama alla libera scelta di accettare la sua regalità (proposta contenuta nel diciannovesimo capitolo dell’Esodo). L’accoglimento della signoria di Dio e il rifiuto degli idoli sono due aspetti complementari: per godere del sole bisogna non  stare all’ombra. Tuttavia non è raro che il sole sia bruciante, perciò la costruzione di spazi umbratili è tentazione perenne. Dio è esigente.

     Quanto si è andati fin qui dicendo non va assunto come prospettiva generale. Nella Bibbia non è affatto impossibile trovare un patto che preveda l’esistenza di un’alternativa formulata in questi termini: scegliete tra il Dio vero e gli altri dèi. Esempi ve ne sono; il più celebre tra essi è contenuto nel libro di Giosuè. Tuttavia  l’alleanza sinaitica non può essere ricondotta a questo modello. Non è pensabile che il Signore si manifesti dicendo: o con me o con gli altri dèi. La teofania di Jhwh confuta, dall’interno, ogni idolatria. Perciò la scelta tra Dio e gli dèi deve essere prospettata al popolo a opera di un uomo e non da parte del Signore. È quanto avvenne nella  «grande assemblea di Sichem» di cui si parla nel libro di Giosuè. Al cospetto di tutto il popolo, il successore di Mosè tiene un discorso che inizia ricordando, nell’ordine, l’antica condizione di idolatra di Terach, padre di Abramo, la discesa in Egitto, la liberazione (ma non il Sinai) e l’ingresso nella terra di Canaan (per intenderci la cosiddetta “Terra promessa”). A questo punto Giosuè propone l’alternativa: « Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume, oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”.Il popolo rispose: “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i nostri padri dalla terra d’Egitto…”»  (Gs  24,14-15).

     In questo brano vi è una scelta proposta da Giosuè e fatta proprio dal popolo;  non c’è, perciò,   un’offerta di alleanza avanzata dal Signore. È chiaro che nel libro dell’Esodo e in quello di Giosuè ci troviamo di fronte a tradizioni diverse. A conferma di ciò basterebbe il fatto che Giosuè ignora la stessa presenza del Sinai. Quanto conta è tener presente che Giosuè prospetta al popolo la scelta tra il Dio d’Israele e gli idoli proprio perché non si richiama al Sinai. Per converso, dunque, ciò conferma che il comandamento contenuto nel Decalogo di non avere altri dèi di fronte al Signore non va inteso come alternativa tra «fede monoteistica» e «idolatria».

     In un certo senso si può affermare che la differenza tra Sinai e Sichem sta nel fatto che nel primo caso c’è un patto tra il Signore e il suo popolo, mentre nel secondo è il popolo che, davanti al proprio capo, si impegna a servire il Signore. A Sichem siamo di fronte a un gruppo di  persone che sceglie collettivamente di servire una divinità piuttosto che altre. Il  primo comandamento, di contro, non va inteso come un invito a scegliere tra il Signore e gli idoli. Vale la pena di ribadirlo; secondo «le Dieci Parole»: l’idolatria costituisce una forma di degenerazione a cui si è esposti una volta che si è già aderito al Signore. Si può proporre una formula molto sintetica ed evocativa: all’interno dell’accoglimento del patto, essere idolatri significa servirsi di Dio in luogo di servirlo. In questa luce va recepita la proibizione di farsi immagini (in realtà dotata di molti altri significati) presente nei versetti immediatamente successivi (Es 20,4-6). Il cuore di ogni idolatria antica o contemporanea, sta nel fabbricare immagini sacre  – in senso proprio e soprattutto in senso lato –  al fine di servirsene  per qualche scopo di parte.  In definitiva, il comandamento non dichiara «scegli Dio piuttosto che gli idoli»; il suo imperativo è un altro: «non trasformare Dio in idolo».

Piero Stefani

 

 

 

315. Tra il Sinai e Sichemultima modifica: 2010-11-20T10:43:43+01:00da
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