Il pensiero della settimana

306 – Essere indipendenti (19.09.2010)

Il pensiero della settimana n. 306 

 

In una memorabile intervista per i quarant’anni dello Stato d’Israele, il grande intellettuale J. Leibowitz attualizzò una sua folgorante definizione secondo cui il nocciolo del sionismo era riconducibile a queste semplici parole: «Siamo stufi di essere governati dai gojim [non ebrei]». L’attualizzazione suonava nel modo seguente «Non so se Jizchaq Shamir [il primo ministro di allora] sia meglio di un alto commissario britannico, ma è dei nostri. Egli è il nostro personale disastro. Vede: qual è il significato dell’indipendenza nazionale? Significa avere il diritto e la possibilità di compiere le proprie follie e i propri crimini» (Il Regno-documenti, 1,1989, p. 59).

Le considerazioni non valevano – e non valgono –  solo per Israele; esse, con un arco temporale più esteso, concernono in modo calzante anche l’Italia. I 150 anni di vita nazionale indipendente del nostro paese sono costellati da disastri, follie e anche crimini, e questi ultimi non riguardano solo il colonialismo. A proposito di questo riferimento, val la pena di aggiungere una nota: l’ombra dei crimini italiani compiuti in Cirenaica rende tuttora debole la nostra nazione nei confronti della Libia, essa si allunga sul modo indecoroso in cui si stipulano trattati e si accoglie Gheddafi e agevola la gestione da parte dell’attuale primo ministro italiano (il nostro personale disastro) dei propri affari privati in quel paese (se le cose volgessero al peggio, Berlusconi invece che in Tunisia – come fece Craxi – si rifugerebbe in Libia o nella Russia di Putin). Fiorenzo Baratelli nell’articolo apparso sulla Nuova Ferrara il 17 settembre cita, opportunamente, una frase di Leopardi: «Per risvegliarci come nazione, dobbiamo vergognarci del nostro stato presente». Giusto; specie se si introduce un’integrazione: motivi di vergogna ci sono anche nel nostro passato. Il paradosso è che, a volte, le trascorse vergogne divengono funzionali a quelle presenti. 

Nell’ambito degli stati vi fu un’occasione in cui venne salutata  – sia pure molto a posteriori – come una benedizione una perdita di sovranità. Questa posizione  singolare fu teorizzata da Paolo VI. Nel 1970, nel centenario di Porta Pia, papa Montini  affermò che la breccia è stata «un fausto evento per la storia della Chiesa».  Quattro anni prima, nel corso di una visita in Campidoglio, Paolo VI, del resto, aveva già detto: «noi non abbiamo più alcuna sovranità temporale da affermare …; non abbiamo per essa alcun rimpianto, né alcuna nostalgia, né tanto meno alcuna segreta velleità rivendicatrice». L’intreccio costituzionale tra S. Sede e Città del Vaticano rende quella duplice realtà un caso senza paragoni nell’ambito del diritto internazionale. Non per nulla, fin dalla sua fondazione, la forma costituzionale del nuovo stato fece insorgere molti intricati problemi. Essi costrinsero il principale responsabile del progetto del futuro ordinamento, Francesco Pacelli (fratello del futuro papa), a chiedere l’aiuto dell’illustre giurista Federico Cammeo (va ricordato che questa  eminente personalità sarebbe stata espulsa dall’ università italiana a causa delle leggi razziali del 1938, sarebbe morta in solitudine l’anno successivo, mentre sua moglie, sua figlia e sua cognata, lungi dal trovar rifugio in Vaticano, sarebbero state sterminate ad Auschwitz nel 1944.[1]). Per quanto si presenti in modo speciale, da parte della Chiesa cattolica è tuttora considerato indispensabile avere anche una forma stato.

Negli anni sessanta del Novecento il 20 settembre 1870, giudicato a lungo una catastrofe, fu ritenuto data provvidenziale. Il sensus Ecclesiae di allora si trovò concorde su questa valutazione. Ci chiediamo: giungerà mai il tempo in cui, a parti rovesciate, si giudicherà, se non proprio una sciagura, quanto meno una grave zavorra storica l’11 febbraio 1929? È domanda peregrina chiedersi se, alla lunga, non avrebbe assicurato maggior libertà spirituale alla Chiesa cattolica quanto da lei sempre rifiutato, vale a dire una riformulazione aggiornata e consapevole della legge delle guarantige? I Patti Lateranensi crearono la Città del Vaticano, minuscolo stato di 44 ettari. Da allora la Chiesa cattolica, in definitiva, si è sempre conformata alla linea indicata da Pio XI: occorreva un territorio, per quanto piccolo, al fine di godere di una sovranità giudicata presenza indispensabile per esercitare, liberamente, la propria missione spirituale. Il giorno stesso della firma Pio XI dichiarò che era necessario, come per san Francesco, «quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima». Decenni dopo, di fronte ai rappresentanti del corpo diplomatico, Paolo VI avrebbe detto: «Voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerare, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanto gli basta per essere libero di esercitare  la sua missione spirituale, e  per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo». Per essere indipendente da ogni sovranità bisogna averne una in proprio per quanto minuscola; per non conformarsi al mondo occorre esserne parte. Il grumo contraddittorio non si risolse neppure nell’aria, più pura dell’attuale, respirata dalla Chiesa conciliare.

Quanto è dato come un’ovvietà non è affatto tale. Sostenere che un minimo di sovranità statale è indispensabile per esercitare in modo libero la propria missione spirituale, significa affermare, implicitamente, che tutte le altre Chiese cristiane, per non parlare di altre religioni, non sono libere. Le parole di Paolo VI non avevano, di certo, queste intenzioni, eppure la conclusione si impone da sé.  D’altro canto, per le comunità religiose il rischio di possibili condizionamenti statali è un pericolo effettivo. Con tutto ciò, in un’epoca come la nostra, contraddistinta dal pluralismo religioso, non è improprio chiedersi se la forma stato che la Chiesa cattolica ritiene necessaria per svolgere la sua missione spirituale non costituisca più un’anomalia che una garanzia. Come vanno giudicate tutte le altre comunità religiose che ne sono sprovviste? Sono forse tutte prive di libertà spirituale? Come ammonisce il 20 settembre, solo eventi storici subiti sono in grado di spostare, in modo risoluto, l’asse portante su cui cammina la Chiesa cattolica. Stante la situazione attuale, è, quindi, ben arduo prevedere un’epoca in cui il papa potrà presentarsi al mondo solo in base all’unica qualifica che gli è davvero propria: vescovo di Roma. Tuttavia, per definizione, nella storia non vi è nulla di eterno.

Piero Stefani




[1] Cfr. F. Cammeo, Ordinamento giuridico  dello Stato della città del Vaticano, LEV, Città del Vaticano 2005; più in generale F. Clementi, Città del Vaticano, il Mulino, Bologna 2009.

306 – Essere indipendenti (19.09.2010)ultima modifica: 2010-09-18T10:07:00+02:00da
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