Il pensiero della settimana

296 – La laicità dei credenti [1]_seconda parte (30.05.2010)

Il pensiero della settimana, n. 296

 

 Seconda  parte

 

Anche nella Chiesa la laicità significa individuare come primo fondamento quanto è comune, vale a dire la fede. Si inizia da lì e  ci si poggia su quella base. Se dentro la Chiesa vale il principio della «piramide sospesa», in cui tutto (di)pende dal vertice, si è entrati nel regno del clericalismo che comporta la negazione del senso della laicità. L’aver parte della comunità ecclesiale è posto perciò sotto il sigillo dell’appartenenza e i fedeli sono considerati, in pratica, dei sudditi la cui virtù prima sta nell’obbedienza: attiva, collaborativa, consapevole ma pur sempre obbedienza.

Il clericalismo è una forma mentis che alberga tanto nei consacrati quanto nei non consacrati. Sul versante opposto lo stesso può dirsi per la laicità. La logica dell’appartenenza esige che una componente ineliminabile della fedeltà sia costituita dalla difesa dell’istituzione ecclesiastica. All’occhio della gerarchia lo schierarsi apologetico diviene, allora,  la cartina di tornasole per individuare i figli prediletti. Il clericalismo domina quando si è chiamati a servire l’istituzione e non quando è quest’ultima a essere posta al servizio dei fedeli. La ripetuta – e nella storia tanto tradita – espressione di Gregorio Magno secondo la quale il vescovo di Roma è servus servorum Dei esige che si dia credito ai fedeli di essere dotati di intelligenza e discernimento spirituali: «Ritengo come un dono ciò che ciascuno dei fedeli potrà sentire e comprendere meglio di me; perché tutti coloro che sono docili a Dio, sono organi della verità! Ed è in potere della verità che essa si manifesti per mezzo mio agli altri o che per gli altri giunga a me» (Gregorio Magno, Moralia in Job, XXX,27,81: PL 76,569).

Il tema dei laici nel Vaticano II trova la propria collocazione più alta all’interno della costituzione Lumen gentium dedicata alla Chiesa (nn. 30-38). L’inizio del discorso risente di qualche ambiguità: da un lato continua a sussistere la tendenza volta a definire i laici innanzitutto per quello che essi non sono («Dopo aver illustrato le funzioni della gerarchia, il santo sinodo rivolge volentieri l’attenzione allo stato di quei fedeli cristiani che si chiamano laici» LG n. 30); dall’altro lato c’è il richiamo all’ecclesiologia conciliare che accomuna tutti i fedeli: «ciò che è stato detto circa il popolo di Dio è rivolto tanto ai laici quanto ai religiosi e ai chierici» (LG n. 30). L’ambivalenza continua anche nel numero successivo «con il nome di laici si intendono tutti i fedeli cristiani, a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa: i fedeli cristiani cioè che, incorporati in Cristo con il battesimo e costituiti popolo di Dio, resi a loro modo partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, esercitano nella Chiesa e nel mondo, per la parte che li riguarda, la missione di tutto il popolo cristiano» (LG n. 32).

 La visione che presenta la Chiesa come popolo di Dio non è priva di risvolti problematici (il primo tra i quali è quello connesso al rapporto con il popolo d’Israele), ma in ogni caso essa, per definizione, non è clericale. Parlare di «popolo di Dio» significa additare il primato di quanto è comune; la funzione del sacerdozio ordinato è di costituire una «parte» posta al servizio del tutto. Il ruolo della laicità si esplicita nel fatto che la gerarchia è subordinata al primato dell’unità. In proposito alcune affermazioni della Lumen gentium vanno considerate come punti di riferimento saldissimi: «Unico quindi è il popolo eletto di Dio: “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5); comune è la dignità dei membri in forza della loro rigenerazione in Cristo, comune è la grazia di essere figli, comune la chiamata alla perfezione, una sola la salvezza, una la speranza e l’indivisa carità. Quindi in Cristo e nella Chiesa nessuna ineguaglianza a motivo della razza o della nazione, della condizione sociale o del sesso, perché “non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna; tutti voi siete ‘uno’ in Cristo Gesù” (Gal 3,28; cfr. Col 3,11)» (LG  n. 32).

Il luogo deputato dove non c’è né giudeo né greco, né maschio né femmina, e  – ci si consenta di aggiungere – né presbitero né laico, è la fede. Parlare di laicità dei credenti è dotato di un aspetto più profondo e accomunante che il riferirsi ai laici e al loro compito all’interno della Chiesa. È lo stesso atto di fede infatti a prospettarsi come laico. Nessuno crede perché appartiene a qualche ambito, a qualche popolo o a qualche istituzione. È un dato dogmatico elementare che ogni persona nasca sempre non cristiana, vale a dire non credente. La fede, a differenza dell’appartenenza, non è comunicata attraverso la nascita. Essa non esprime un privilegio, non manifesta un’identità. Ogni credente continua a essere quello che era prima, vale a dire a condividere quanto è comune: il suo genere, la sua cultura, la sua appartenenza alla polis e ancor più estesamente il suo aver parte all’umanità. Molto più che una scelta, la fede è una risposta a una chiamata. A differenza del segno sacramentale che  contraddistingue l’ingresso nella Chiesa, il battesimo, la fede non entra nella sfera di quanto  si dà «una tantum». Essa non avviene una volta sola: il credere va confermato giorno dopo giorno. Per quanto la fede non sia un possesso, è vero che la si può perdere. Ciò vale per ogni membro della Chiesa. Nessuno, qualunque sia la sua carica, può affermare di essere nella fede una volta per tutte. Colta in quest’ottica, la fede non può essere che laica.

Nel vangelo di Marco c’è una parola grande. È quella rivolta a Gesù dal padre dell’epilettico indemoniato: «credo, aiuta la mia incredulità (apistia)» (Mc 9,24). Si tratta dell’espressione più propria per dire la quotidiana chiamata laica alla fede, in cui non ci sono ruoli, né appartenenze, né identità, ma un incontro, un presenza,  entro la quale, secondo un paradosso proprio del credere, si può però sperimentare anche l’abbandono: «Dio mio, Dio mio perché…?»

Piero Stefani

 




[1] Ripropongo in due puntate  la conversazione tenuta presso il Meic di Lecco il 19 maggio 2010

 

296 – La laicità dei credenti [1]_seconda parte (30.05.2010)ultima modifica: 2010-05-29T10:27:00+02:00da
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