Il pensiero della settimana

263 – La lingua e il randello (04.10.09)

Il pensiero della settimana, n. 263 

   

 

Percorrere  il  cosiddetto scalone dei morti della Sacra di San Michele non lascia indifferenti, al pari di tutto il resto in quell’abbazia che svetta (è il caso di dirlo) sulla cima del monte Pirchiriano all’imbocco della val di Susa. L’impressione non deriva dal nome lugubre collegato ad antichi sacelli; essa proviene dall’irta serie di larghi gradini incuneati nella roccia che conducono su, verso la porta dello zodiaco. Là, fissati nel lento deperire del marmo, sono raffigurati i segni che presiedono al più veloce transito dell’esistenza umana. Nel terzo decennio del XII sec. maestro Nicholaus (lo stesso della cattedrale di Ferrara) vi lasciò la sua firma in una selva di simboli, alcuni difficili da decifrare, altri più agevoli.  Tra questi ultimi vi sono quelli che indicano vizi e peccati: ammonimenti consueti per chi medita sul trascorrere di un tempo ancora ritenuto soggetto a un conclusivo giudizio.

Al grande scultore (o a qualche suo collaboratore) si deve anche un capitello dedicato all’archetipo della violenza interumana: il primordiale fratricidio compiuto dall’agricoltore nei confronti del pastore. La vicenda di Caino e Abele può essere letta in molti modi. Vista sul piano etico rimane tuttora segno perenne che ogni omicidio è, nella sua radice, l’uccisione di un fratello; letta in chiave antropologica indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, conflittuali modi di spartirsi beni e risorse; colta in chiave simbolica rappresenta la radicale fragilità inscritta nella condizione umana (Abele da hevel, soffio, vacuità) e così via. Tuttavia il capitello esprime altro.

Caino  è raffigurato mentre è in procinto di colpire con un nodoso, enorme randello il proprio inerme fratello. L’oggetto contundente  sfiora il capo della vittima, ma vi è ancora un certo spazio vuoto tra il legno e il cranio: perché il colpo si abbatta occorre una frazione di secondo, il sangue di Abele non è ancora sparso. Nulla lascia supporre che l’azione si arresti e tuttavia il particolare serve più ad accentuare il motivo della decisione che porre in rilievo un esito irreparabile. La caratteristica ben si attaglia alla presenza di un altro soggetto che marca fortemente il capitello. Alla sinistra di chi guarda, subito dietro Caino, vi è un diavolo. Quanto colpisce in questa figura  non sono le zampe  caprine o altri tratti consueti dell’iconografia diabolica. L’occhio, infatti,  è attratto da  una prorompente, lunghissima lingua che giunge fino alle ginocchia; essa, inoltre, è afferrata dalle due mani. Qui nasce un’ambiguità: le mani servono per srotolarla come fosse un tappeto rosso, o operano per trattenerla come se si trattasse delle lingue-trombette di carnevale che si attorcigliano appena si cessa di soffiare? Nell’una e nell’altra ipotesi ci si appella, comunque, a una forza supplementare: i soli muscoli linguali non bastano.

Il diavolo linguacciuto è, in genere, inteso come simbolo della menzogna. Basterebbe fermarsi a questo primo rilievo per far nascere  un problema: perché il mentire non rientra nei vizi capitali?  Forse si tratta di un’abitudine meno grave che indulgere alla lussuria, alla gola, all’avarizia e via discorrendo?  Questi interrogativi ci conducono però soltanto sulla soglia, senza lasciarci entrare nel cuore della questione. Per raggiungerlo occorre passare attraverso due citazioni giovannee.

Il diavolo «era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44): «Poiché  questo è il messaggio che avete udito fin dal principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal Maligno e così uccise suo fratello» (1Gv 3,12). A volte le citazioni parlano proprio quando vengono estrapolate e  accostate.  Menzogna e omicidio sono, per tal via, intrecciate in modo saldissimo. Qui si comprende che la menzogna, antitesi della verità, non è riconducibile al fingere (area in cui cade anche l’ironia), al recitare, al dire bugie: è un inganno che tocca nelle viscere la condizioni umana.

I due passi giovannei contengono entrambi un «in principio»: quello della menzogna e quello dell’amore vicendevole. In questa contrapposizione si svela il legame che unisce la negazione del vero con l’omicidio.  La verità non è un fatto, è una relazione. È  la fedeltà buona che si costituisce quando ci si apre reciprocamente l’un l’altro. Nella teologia cristiana, essa si fonda nel Dio che è uno e trino perché  agape. Nei rapporti interumani ciò avviene quando i legami si costruiscono e si rinsaldano reggendo alle insidie del tempo  e  alle tensioni reciproche. In questa luce la verità del principio può essere colta e detta solo alla fine. L’omicidio è un abisso di menzogna perché nega la verità più intima della condizione umana: la reciprocità. L’assassinio, che avvenne in principio, è l’antitesi primordiale della «regola d’oro» che fa dell’uguaglianza tra sé e l’altro il fondamento primo di ogni comportamento veritiero. Verità e menzogna non sono dati; entrambe sono frutto di antitetiche costruzioni.

Il diavolo linguacciuto è il simbolo di quanto in noi si contrappone alla verità dell’incontro. Esso rappresenta  una centratura su di sé  che trova nell’ostilità verso l’altro la regola della propria condotta. La sfacciata esteriorità di quella lingua a penzoloni allude, in realtà, a qualcosa di insito nel cuore umano che conosce l’avversione ed è chiamato a trattenerla fino all’ultimo istante, quando il randello della violenza è lì, lì per abbattersi. Nel linguaggio della Genesi, riferito proprio a Caino: «il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo tracimare, ma tu dominalo» (Gen 4,7).

Piero Stefani

 

 

 

263 – La lingua e il randello (04.10.09)ultima modifica: 2009-10-03T10:42:00+02:00da
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