Il pensiero della settimana

240 – L’abat-jour cinese (08.03.09)

 Il pensiero della settimana, n. 240

 

Se ne accorse solo il mattino dopo: sulla facciatina gialla in caratteri sinuosi era scritto, Fra le due stazioni. Suppose che si trattasse di quella ferroviaria, in fondo al viale e di quella delle corriere che non aveva individuato. Fino ad allora per lui il posto in cui aveva dormito aveva un altro nome. Vi era giunto dopo le undici di una sera piovosa. Sul biglietto c’era scritto: albergo Minami. Non si era fatto tante domande. In quel grosso paese padano doveva stare solo poche ore. L’indomani il treno l’avrebbe portato altrove.

L’ambiente era umido e scuro. Sulla porta apparve un cinese, ancora giovane. L’ingresso immetteva in un piccolo ristorante. Attorno a un tavolo un gruppo di adulti mangiavano cibi simili a salumi, ma tagliati a strisce.  Nessuno parlava. I cinesi sembrano mangiare così come lavorano. Un senso del dovere domina anche la tavola. Vi è una sentenza antitetica a ogni convivialità: per vivere bisogna mangiare.

Lo fecero passare nella stanza accanto. Era una piccola reception. Dietro il banco c’era un’adolescente. Quando le fu chiesto, dichiarò di avere quindici anni; ne dimostrava tredici. Accanto a lei stava un bambino. Capelli corti e coda. Su un polso aveva disegnato con la biro un orologio. Il cliente non riuscì a leggere l’ora segnata dalle false lancette. Recepì il disegno come simbolo di un tempo vissuto in modo diverso: a quattro anni era li, poco prima di mezzanotte, per il “gioco-non-gioco” di accogliere gli ospiti. La ragazza chiese il documento, compilò il modulo, fece firmare. Percorsa una piccola rampa di scale, accompagnò il cliente nella stanzetta. Là vi era un solo oggetto in grado di indicare l’avvenuto cambio di gestione: una abat-jour gadget di forma orientaleggiante priva di interruttore. Per accenderla bastava sfiorarne la base. Ci volle un po’ per capirlo.

 Rimasto solo, l’ospite lasciò liberi i propri pensieri. La memoria lo condusse indietro di qualche anno. Era maggio inoltrato; le notti ormai erano tiepide. Si trovava nella stazione fiorentina di Campo di Marte in attesa di un treno notturno che lo avrebbe condotto verso nord. Se ne stava su una vecchia panchina di legno. Sulle altre c’erano solo dei non italiani. Gli si parò davanti un marocchino che gli chiese il permesso di sedersi accanto a lui: sulla panca accanto quel nero si era ben guardato dal tirar giù le gambe.  Il magrebino dichiarò di essere diretto a Lignano Sabbiadoro. «Era la vigilia del week end di Pentecoste – disse – perciò comincia la stagione». I tedeschi scendevano verso il mare; lui, musulmano, iniziava a intrecciare collanine e braccialetti,  di contro per quasi tutti gli italiani (nominalmente cattolici) sarebbe stato un fine settimana uguale a tutti gli altri.

 Passata l’estate sulle rive dell’Adriatico, se la sbrigava per il resto dell’anno con lavoretti occasionali. Teneva famiglia. I soldi non abbondavano. Eppure lui, seguace dell’islam, non riusciva a vincere il suo vizio: scolarsi lattine di birra (accompagnate da un congruo numero di sigarette). Si sentiva in colpa tanto per gli euro dilapidati, quanto per il contrasto aperto in lui con un’appartenenza islamica a cui non aderiva appieno, ma da cui non era neppure capace di staccarsi.

 Il marocchino cominciò a parlare degli italiani. Lo colpiva la loro incapacità di cogliere quanto stava avvenendo. Commentò gli sbarchi dei clandestini che allora (come ora) propagavano ansie lungo lo Stivale.  «Dei cinesi invece – aggiunse – non ve ne accorgete neppure. Dovete aprire gli occhi. Passo dopo qualche mese nella stessa strada e vedo che quel negozio e quell’altro è già diventato cinese. Voi non li vedete entrare perché non sbarcano sulle coste. State attenti: ci portano via il lavoro». Il treno era giunto. Il marocchino cercò un posto dove dormicchiare: la mattina dopo avrebbe cominciato a intrecciare braccialetti e collanine per i turisti tedeschi stesi sulla sabbia a Pentecoste. Lì ancora i cinesi non erano giunti.

 Infilatosi nel letto, l’ospite dell’albergo Minami continuava a pensare. «Il ristorante si qualificava giapponese (per via della moda del sushi?) ma i gestori erano cinesi. Adesso non sono solo i magrebini ad accorgersi della loro penetrazione nelle nostre contrade. La mancanza di vecchi e la domanda su dove vanno a finire i loro morti è diventata oggetto del chiacchiericcio comune. Eppure la radicale laicità dei cinesi li rende culturalmente meno inquietanti anche in terre leghiste.»

 Gli tornò alla mente quanto aveva visto di sfuggita in una stazione di passaggio: due magrebini che si abbracciavano e baciavano salutandosi con calore. «Quando mai è dato vedere pubbliche manifestazioni di affetto da parte dei cinesi? Le loro braccia paiono destinate a non incontrarsi mai. Il loro senso di appartenenza è privo di grandi riscontri per le strade. Nessuno di loro organizza pubbliche preghiere sulle piazze. Nessuno rivendica l’apertura di luoghi di culto nel cuore delle nostre città. Il lavorio interno legato a una presenza culturalmente indecifrabile inquieta meno. La preoccupazione è avvertita soltanto se tocca direttamente la sfera economica. La si coglie solo quando proprietà e lavoro sono passati nella mani di coloro che, senza sorrisi, sono instancabilmente in pista giorno e notte.»

Ripensò alla laicità cinese. Gli venne in mente un solo episodio legato alla religione. Si trattava di cristiani, più esattamente di pentecostali (che nulla hanno a che vedere con i turisti tedeschi che inaugurano la stagione a Pentecoste). Erano da poco giunti in città; sulle prime furono ospitati dai loro confratelli italiani. Dopo breve tempo applicarono anche al “garage-chiesa” la logica dell’acquisto. I cinesi divennero proprietari e gli italiani ospiti. Nonostante la comune fede nello Spirito e nei carismi, i rapporti tra le due componenti divennero tesi. Gli italiani se ne andarono altrove. Dal miracolo delle lingue si era passati alla logica della separazione. Sulla facciata del garage ora campeggia una bella scritta in cinese mandarino.

 L’ospite toccò la base dell’abat-jour, la luce si fece più intensa; la sfiorò una seconda volta si spense del tutto. Ormai dominava il giochino: uno, due, tre. Si esercitò un paio di volte. Poi spense il lume nella convinzione di comprendere poco del mondo in cui vive e persino dell’albergo Minami in cui stava per prendere sonno. Soltanto al risveglio avrebbe appreso che prima si chiamava Tra le due stazioni.

 

Piero Stefani

 

 

 

240 – L’abat-jour cinese (08.03.09)ultima modifica: 2009-03-07T16:04:00+01:00da
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