Il pensiero della settimana

135 – Dialogo sull’ospitalità (03.12.06)

Il pensiero della settimana,  n. 135

 

I due discutevano animatamente. Lea difendeva l’ambivalenza, anzi la trovava uno dei meriti della lingua italiana. Giovanni la giudicava una imprecisione; per lui,  cultore del rigore scientifico, meno ambiguità c’erano meglio era. L’occasione della disputa era sorta a proposito della parola «ospite». Lea aveva affermato che Bruno e Franca erano stati «ospiti squisiti». Giovanni, sulle prime, aveva capito che avessero soggiornato per qualche tempo a casa della sua interlocutrice. Lea però lo corresse dicendo che era stata lei a stare qualche giorno da loro.

«Non cogli la bellezza di questa duplicità? Essa indica uno scambio che conduce alla parità. È come il termine “amico”, si usa per entrambi; uno non più amico dell’altro. Non solo,  sia nel caso dell’ospitalità che in quello dell’amicizia, è  il disinteresse che fa raggiungere il giusto calore e la piena corrispondenza».

«Sarà. Tuttavia, c’è una bella differenza tra aprire la propria casa a qualcuno e l’entrare nella dimora altrui: uno ospita e l’altro è ospitato. C’è una situazione disomogenea; c’è una specie di scompenso da sanare. Quando vai in albergo paghi il conto, quando sei ospite è buona usanza portare un regalo. Sono  atti diversi, eppure hanno delle affinità: riequilibrano una situazione che, altrimenti, resterebbe sbilanciata.»

«Santo cielo, Giovanni, ma che discorsi fai? Anch’io potrei citarti tante sedicenti amicizie che sono tali solo all’apparenza. Ciò avviene quando quel che tiene insieme le due persone sono solo gli interessi e i vantaggi reciproci, non la gioia dell’incontro. Lo so benissimo che in società ci sono infiniti inviti a pranzo che hanno lo scopo di ingraziarsi qualcuno e che in questo caso l’invitato, anche se è di riguardo, bada bene di non far mancare i fiori alla signora. Ma quando l’ospitalità è davvero degna di questo nome, il dono più grande che l’ospite fa è la sua stessa presenza.»

«Colta in fallo. Vedi Lea, nonostante il tuo romanticume, anche  tu, in questo caso, hai impiegato la parola ospite per intendere solo chi è ospitato: è lui il dono più autentico, non i fiori, i cioccolatini, ecc. L’ho sentita, tante volte questa storia…»

«Niente affatto. Per ospite intendevo proprio tutti e due: uno fa il dono di ospitare e l’altro di essere ospitato.»

«Bel dono! Mangiare, bere e dormire senza spendere un soldo è un regalo che molti farebbero volentieri. Guarda, anche senza tornare al tema dello sdebitarsi coi regali, è assai comune  praticare un’altra forma di compensazione: scambiarsi i ruoli, oggi ti ospito io, domani tu. Qui sì c’è bilateralità, ma non è quella del tuo sentimentalismo».

« Hai proprio una mentalità gretta – disse Lea –  anche tu devi ammettere che, quando c’è vera amicizia, la gioia di ospitare è pari a quella di essere ospitati e viceversa.»

«Già, ma prova a ospitare un vagabondo, un immigrato senza permesso di soggiorno. Alla mattina corri il rischio di non vederlo più, perché con lui, guarda caso, se ne è andata anche la tua argenteria.»

«Il tuo modo di esprimerti è brutale, ma devo ammettere che qui hai toccato un punto reale. L’ospitalità comporta dei rischi. Lo dice la stessa etimologia. Vi è una forte somiglianza in latino tra hospes e hostes. Da quest’ultimo termine derivano parole come hotel, hostess, oste (tutte legate in un modo o nell’altro all’ospitare), ma derivano anche ostico, ostile…»

«Facile da spiegare. Vuol dire – la interruppe Giovanni – che gli antichi osti facevano pagare conti piuttosto salati».

«Smettila con le tue battute, la cosa è seria. L’ospite può rivelarsi un nemico quanto meno un approfittatore. Nei  rapporti umani la persona ingenua troppo spesso è vittima dei furbi; ma perché  rassegnarsi a sostenere che è sempre e comunque cosi? È un pregiudizio anche pensare che essere cinici sia garanzia di prenderci sempre.»

«Va bene, cercherò di mutare tono. Ti farò perciò una domanda seria. Ritorniamo alla situazione in cui tu ospiti il vagabondo e che egli non ti rubi niente. Tu gli hai donato vitto, alloggio, tempo. Ma lui? Quando se ne va al massimo ti dice grazie; ammetto persino che possa provare riconoscenza, ma quale dono ti ha fatto mentre stava presso di te?»

«Guarda, proprio su questo tema ho sentito parlare di recente un operatore di  un’associazione di volontariato che si occupa di emarginati. Gli era stata posta una domanda simile alla tua. Lui ha risposto richiamandosi proprio all’ambivalenza della parola ospite. Aggiunse subito di aver ricevuto tanto dai poveri. Questo avveniva in particolare quando lo sbandato, lo sfrattato, l’immigrato gli raccontavano le loro storie. Il dono preziosissimo che riceveva era il racconto di vite che diventavano più umane per il semplice fatto di essere narrate e ascoltate. Ho imparato molto da loro, aggiungeva, fino al punto che alla fine, a volte, riuscivo anch’io a comunicare loro le mie preoccupazioni e le mie vicende. Si era dischiusa la porte dell’incontro.»

«Ammetto di non riuscire far ironia a questo proposito, tuttavia…»

«Questa volta “tuttavia” lo dico anch’io» – aggiunse Lea – «Il fatto è che, mentre il primo operatore faceva questo discorso, intervenne anche un’altra persona, meno giovane e con l’aspetto da intellettuale.  Ti riassumo le sue considerazioni. Negli ultimi anni tutto si è, per così dire, incentrato sul “come”: come accogliere, come inserire, come organizzare, come assistere.  L’emarginazione  è considerata un dato strutturale da cui partire. È giudicata ineluttabile come il sorgere e il tramontare del sole. Guarda che in italiano c’è però anche un’altra parola ambivalente: è il termine “perché”. Vale per la domanda, vale per la risposta. Noi non abbiamo why e because. Rispetto alle storie delle vite c’è però una bella differenza. Se non lasci all’emarginato esprimere la domanda del “perché” lui sia così, la sua storia non ti morde davvero.  Ma se te la pone, per rispondergli non puoi limitarti al piano soggettivo, devi introdurre dei “perché” che toccano da vicino i grandi assetti sociali. Si è cioè obbligati a riproporre la domanda sul perché vi sia tanta ingiustizia sociale; un tema che quasi tutti, oggi, vorrebbero riporre nel cassetto. Vedrai allora che il pungolo del suo perché è più acuminato dei tuoi tentativi di risposta. Tu fai volontariato, il tuo agire perciò è frutto di una libera scelta, la condizione emarginata del debole o dello sfruttato è invece subita come una necessità che nessun racconto può esorcizzare. Un  tempo si credeva che quel risanamento potesse essere tentato dalla politica, per non dire dalla rivoluzione; adesso tutto questo sembra tramontato. “Tanto so già come andrà a finire; direte, al solito, che sono un paleomarxista”, commentò con sarcasmo l’uomo. In realtà noi tutti restammo un po’ scossi…»

«Qui, ancor più di prima, mi è impossibile essere ironico» concluse Giovanni.

 Piero Stefani

135 – Dialogo sull’ospitalità (03.12.06)ultima modifica: 2006-12-02T13:20:00+01:00da
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