Il pensiero della settimana

123 – Il dialogo delle leggi (10.09.06)

Il pensiero della settimana, n. 123 

 

In ragione della sua attualità, anticipo la segnalazione  bibliografica che uscirà, verso fine mese, sul n. 16, 2006  della rivista Il Regno.

 

Il dialogo delle leggi

 

Ordinamento giuridico italiano e tradizione giuridica islamica

a cura di I. Zilio-Grandi.

pp.171, Marsilio,  Venezia 2006,  € 15,00

 

Due iniziative, prese dal ministro degli Interni Pisanu nello scorcio finale della scorsa legislatura, continuano ad avere conseguenze fino al presente ed è facile prospettare ad esse un ulteriore futuro.  La più nota è la Consulta per l’islam italiano (per lo più conosciuta con il semplice aggettivo «islamica»). I suoi compiti, puramente consultivi, mirano a elaborare ricerche, pareri, proposte al fine sia di favorire il dialogo istituzionale con le comunità musulmane d’Italia, sia di migliorare la conoscenza delle problematiche dell’integrazione allo scopo di individuare soluzioni adeguate «per un armonico inserimento delle comunità stesse nella società nazionale, nel rispetto della Costituzione e delle leggi della Repubblica» (art. 1, n.2, cit. p. 41).  La Consulta, non elettiva, è di nomina ministeriale e richiede ai suoi membri una «convinta adesione ai valori e ai principi dell’ordinamento repubblicano» (art. 2, n 1. cit. p. 43). Le recenti questioni sollevate in riferimento alla presenza in essa di un rappresentante dell’Ucoii e il prospettato obbligo di sottoscrivere una prossima carta di impegni avrebbero dovuto, perciò, essere state risolte a monte.

La seconda iniziativa riguarda una circolare che imponeva ai prefetti di istituire in ogni provincia dei «tavoli delle religioni». Lungo tutto lo Stivale funzionari che hanno per lo più nel loro DNA una visione di stato laico si sono, quindi, trovati di fronte all’inedito compito di organizzare incontri interreligiosi. Non di rado gli incaricati, sentendosi impreparati alla bisogna, hanno chiesto, a loro volta, aiuto. In genere, per sapere qualcosa di più sui musulmani, ci si è rivolti alla Digos e, per avere una copertura culturale autorevole, all’Università. Tuttavia restava insoluto un nodo di fondo: come differenziare dalle dinamiche proprie della società civile i modi di procedere di un organismo statale? I prefetti non possono certo propugnare iniziative tipo gli ormai non rari festival gastronomico-religiosi che, mettendo tutti a tavola e mescolando, come fossero ingredienti, religioni e cultura, fanno credere che la cucina egiziana, marocchina o pakistana sia islamica, senza porre sulla tovaglia gli sgozzamenti e i dissanguamenti imposti dalla sharia musulmana o dalla halakhà ebraica.

Dopo qualche incertezza in cui  si assunsero modelli più consoni in altri contesti, le iniziative prefettizie si sono orientate nella direzione di favorire una riflessione culturale sui temi di natura istituzionale. Progressivamente esse hanno anche sollevato il lieve velo che nascondeva l’autentico intento dell’iniziativa ministeriale. Qual era dunque il non troppo nascosto segreto da palesare?  Quel che sta davvero a cuore al Ministero degli Interni non è incrementare gli incontri tra le religioni, né tanto meno far crescere la cultura religiosa (tema, peraltro, disatteso anche dal Ministero dell’Istruzione), bensì misurarsi con il nocciolo duro costituito dalla presenza musulmana in Italia. Esemplare in proposito il caso di Genova. In quella città il prefetto Giuseppe Romano,  nel luglio del 2005, mise in piedi un incontro tra un imam, un sacerdote e un rabbino, mentre il 26-27 ottobre dello stesso anno organizzò un colloquio di studi intitolato: «Ordinamento giuridico italiano e tradizione giuridica islamica».

Gli Atti, prontamente stampati presso un importante editore ed egregiamente curati, meritano di essere conosciuti. Staccandosi dal breve respiro delle pubblicazioni locali e degli interventi eruditi, i contributi qui raccolti  (a firma di G. Cataldi, A. Cilardo, C. De Angelo, A. Ferrari, S. La China, L. Musselli, M. Nordio) gettano uno sguardo competente e, non di rado, penetrante su una serie di questioni in genere affrontate  con scarsa cognizione di causa. Fedeli al titolo, le relazioni si collocano su due fronti: da un lato affrontano i nodi connessi al rapporto tra l’ordinamento dello Stato e le organizzazioni musulmane italiane, dall’altro riflettono sul terreno, meno solcato, della possibilità della legge musulmana  (e si ricordi che, secondo la definizione propugnata da Alessandro Bausani, l’islam è una religione di Legge) di conformarsi agli ordinamenti giuridici occidentali.

Nella comprensione  normativa e giuridica i dettagli sono spesso essenziali; tuttavia, facendo violenza a un rendiconto adeguato, alcuni punti possono essere posti in rilievo anche in modo estremamente sintetico. Da parte dello Stato italiano il quadro di riferimento generale è costituito da due presenze e da due assenze. Le prime due sono costituite dall’articolo 8 della Costituzione che prevede la stipula di intese con le confessioni religiose non cattoliche e dalla legge del 1929 sui culti ammessi; le mancanze sono: la non esistenza di un’intesa tra Stato e rappresentanti delle comunità islamiche e la non approvazione, nonostante una più che decennale discussione parlamentare, di una nuova legge sulla libertà religiosa che sostituisca quella di quasi ottanta anni fa. Questa vacanza ha caricato, non di rado, la Consulta di attese improprie quasi che essa costituisse la prima pietra di una futura, autonoma rappresentanza musulmana italiana con cui poter infine stipulare l’intesa.

In realtà, come ha giustamente osservato Alessandro Ferrari nel suo ottimo contributo,  l’esperienza europea mostra innanzitutto che l’efficacia dell’intervento pubblico a sostegno di una rappresentanza unitaria islamica risulta direttamente proporzionale al suo carattere inclusivo (la via delle esclusioni, alla lunga, è controproducente), in secondo luogo bisogna preventivare che, prima o poi, l’intervento governativo si imbatta nel limite costituzionale del rispetto dell’autonomia dei gruppi confessionali; tuttavia «nel lungo periodo […] la via del coinvolgimento diretto dei fedeli musulmani attraverso un metodo elettorale “democratico” appare preferibile rispetto a sistemi di cooptazione»; infine il «“metodo democratico” appare efficace  […] solo se accettato da tutte le componenti della comunità musulmana» con forti ricadute sul pluralismo interno (p. 40). In altre parole, il timore che, come avvenuto più volte in sede internazionale, elezioni democratiche favoriscano la componente integralista non è privo di fondamento. L’eventualità però non può essere esorcizzata con il ricorso a una «democrazia calmierata».

Sull’altro versante è essenziale che da parte musulmana si incrementi l’elaborazione di  un fiqh al-‘aqalliyyat, ovvero si prospetti un diritto, che senza urtarsi contro i dati di fondo della tradizione, tenga conto delle specificità proprie delle minoranze islamiche che vivono entro paesi non musulmani. L’espressione è stata coniata nel 1994 dal Taha Ğābr Al-‘Alawānī presidente del North America Fiqh Council. Essa si muove lungo l’asse stando al quale il dovere di rispettare il diritto islamico riguarda solo le regole non in contrasto con quelle dello Stato di residenza (p. 136). Ormai esistono vari, importanti studiosi di diritto islamico che hanno operato in questo campo (Hashim Kamali, Alī Kettani, Faysal Mawlawī, oltre al citato Al- ‘Alawāni); l’eco maggiore in Occidente, però, non è dovuta a loro, bensì alla discussa figura di Tariq Ramadan (il cui insegnamento ispira il pensiero dell’Ucoii) (cf. la relazione di Carlo De Angelo, pp. 131-160).

Pur non essendo un giurista del livello dei precedenti, Ramadan è divenuto efficace  portavoce di una terza via che prende le distanze da due opzioni ben note anche ad altre minoranze religiose: o inserirsi nella sfera pubblica come cittadini uguale agli altri e lasciare l’aspetto religioso alla dimensione privata o adottare una linea separatista di tipo comunitaristico. L’opzione proposta da Ramadan è invece di interagire con la società accettandone le regole ma salvaguardando anche le peculiarità islamiche. Questa linea di condotta porterebbe alla nascita di un islam europeo, analogamente a quanto avvenuto in Africa o in Asia. Tuttavia l’aspetto più problematico dell’operazione sta nel fatto che, in questa visione, l’islam è caricato di una funzione diretta verso l’intera società. Il suo compito specifico sta nel ribadire il primato di Dio in  un contesto, di ascendenza cristiana, che lo ha dimenticato. In ciò è obbligo leggere un giudizio, almeno implicito, sul fallimento del cristianesimo. Si comprende , quindi, che la paragonabilità degli intenti e la radicale divergenza dei mezzi renda aspro il confronto tra questa linea e quella propugnata dai sostenitori delle radici cristiane dell’Europa.

Piero Stefani

123 – Il dialogo delle leggi (10.09.06)ultima modifica: 2006-09-09T14:25:00+02:00da
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