Il pensiero della settimana

75 – Dialogo in famiglia sulle religioni (17.07.05)

Il pensiero della settimana n. 75 

Premessa. Con questa puntata i «pensieri» entrano in vacanza. Riprenderanno, a Dio piacendo, nella prima settimana di settembre.

Nel pensiero n. 59 era stato proposto un abbozzo di dialogo sulle religioni. Lo ripropongo ora, con varie aggiunte. Il tutto è allo stato di abbozzo definitivo. L’ossimoro è giustificato dal fatto che l’ipotesi editoriale, da cui il dialogo ha preso le mosse,  è nel frattempo tramontata. Forse sarà riproposta in forma non dialogica, ma neppure questo è sicuro.

Vi auguro un resto dell’estate sereno. 

 

Dialoghi in famiglia sulle religioni

 

In memoria di P. Benedetto Calati

maestro di dialogo.

I

 

Andrea – Adesso che la nonna non è più tra noi mi spieghi una parola che mi ha detto tanti anni fa quando ero ancora piccolo? Mi è rimasta dentro per tanto tempo.

Da bambino, tornato dal catechismo, domandai alla nonna se credeva in Dio. Mi ha risposto dicendo che se c’è Dio egli è molto, molto grande mentre noi siamo così piccoli da non sapere neanche se c’è e così inquieti da non poter neppure sostenere che Dio non c’è. «Io sono fatta così» ha detto. Poi ha aggiunto: «Se vuoi puoi chiamarmi agnostica. Una parola che capirai quando sarai grande». Adesso lo sono e voglio domandarti cosa s’intende con questo termine così complicato.

 

Papà – Sì, la nonna si definiva in quel modo. Agnostico è un termine moderno nato più o meno 150 anni fa (non molto per una parola). Si riferisce a una specie di non sapere (questo è anche il suo senso etimologico) e lo si applica a chi si dichiara  non credente, ma nello stesso tempo afferma anche di non essere ateo, vale a dire non è neppure sicuro che Dio non esista. I filosofi danno all’espressione dei significati più complessi, ma la nonna la usava  nel senso che ti ho appena spiegato. Per la verità più che definirsi agnostica, viveva come tale o, meglio ancora, era sempre oscillante. A volte l’ho sentita pronunciare sotto voce delle mezze preghiere. Chiedeva a Dio di aiutarla e soprattutto gli domandava di soccorrere  le persone sofferenti e disperate che incontrava nella sua vita. Si sentiva in colpa per non riuscire a fare di più. Eppure sai quanto fosse generosa. Altre volte invece esclamava che non era possibile credere in Dio davanti a un mondo così pieno di male e cattiveria come è il nostro. Una volta l’ho sentita esclamare: «quando morirò capirò ben come sono le cose dopo». Ma non ti è difficile capire che se si va a finire nel nulla il morto non si accorge affatto in quale direzione si è sciolto l’enigma. Poi si inteneriva di fronte alla bellezza della natura e diceva che non era possibile che le stelle, il cielo, il mare, le montagne, i grandi alberi che le piacevano tanto si fossero fatti da soli. Però quando in televisione le capitava di guardare i documentari sulla vita degli animali cambiava umore. Vedeva che l’esistenza di quei viventi era tutta dominata dal bisogno di mangiare e di riprodursi e dalla violenza connessa a quegli atti. Il leone mangia  l’agile gazzella e i trichechi lottano a sangue per conquistarsi la femmina e diventare capo branco. Insomma tutto il mondo si regge sul fatto che il  pesce grande mangia quello piccolo. Allora sentenziava: «È impossibile che un Dio potente e misericordioso abbia creato una realtà così crudele».

 

Andrea – Mi hai fatto venire in mente un episodio. Da bambino ero al parco. Ero su un ponticello da cui gettavo dei pezzetti di pane ai pesciolini. Venivano tutti a galla per  mangiare. Uno di loro aveva appena afferrato il suo bocconcino che subito saltò fuori dietro di lui un pesce enorme che in un attimo inghiotti il pesciolino insieme al pezzetto di pane. Ci rimasi malissimo. E per tanto tempo non volli più dare da mangiare ai pesci rossi.

 

Papà – Anche in questo assomigli alla nonna e non solo per il colore degli occhi.

 

Andrea – Tu però non sei agnostico, tu credi in Gesù, perché?

 

Papà – Ci sono delle cose difficili da spiegare, anche se sono realtà tanto importanti da giocarvi la  vita. Voglio essere banale; ti confesso che lo faccio anche perché sono un poco imbarazzato, oltre che molto contento, di parlare di queste cose con te.

Tu fai dello sport, conosci perciò tante persone che si alzano presto  per correre a piedi o per andare in bicicletta. Fanno delle gare molto faticose, spesso arrivano stremate ma poi saltano di gioia quando scoprono di aver  migliorato di qualche secondo le loro prestazioni. Si controllano moltissimo nel mangiare e nel bere, guardano la bilancia tutti i giorni: guai se sono cresciuti di un etto. E via dicendo. Bene, se chiedi loro perché fanno tutti questi sacrifici, ti rispondono con frasi scontatissime: per star in forma, per star bene, perché mi piace, perché prima non riuscivo a fare neppure una rampa di scale senza avere il fiatone, mentre adesso…, perché mi fa provare forti emozioni. Eppure sai che tutto questo spesso non è  vero. Star bene? Quanti si rovinano prendendo pasticci pur di battere il compagno di allenamento e vincere una gara che mette in palio un prosciutto. Insomma non sono capaci di trovare delle frasi davvero convincenti per dar ragione di tanto impegno, fatica e a volte rischio. Sotto evidentemente c’è dell’altro, forse anche delle motivazioni inconsce che neppure loro sanno di avere.

Qualcosa del genere vale anche in relazione alla fede. È chiaro, si tratta di realtà ben diverse, ma pure in questo caso se chiedi – come hai appena fatto tu – direttamente a una persona perché crede, sentirai in genere risposte molto poco argomentate: «Perché ho incontrato Gesù e questo incontro ha mutato la mia vita». Ma se insisti a chiedere in che modo l’ha incontrato, la risposta non decolla poi tanto: «Ho sentito una voce che mi chiamava; me l’ha testimoniato una persona straordinaria, ho visto quanto erano gioiosi e sereni coloro che avevano fede e così li ho seguiti». Puoi sentire anche altre risposte: «Perché altrimenti la mia vita non avrebbe senso», «Perché ho capito che la vita è un dono d’amore», «Perché Dio mi ha parlato nel volto dei miei fratelli che sono nel bisogno». Forse si potrebbe anche aggiungere: «Perché è la via da imboccare per vivere bene», ma per la verità non ho mai udito nessuno rispondere in questo modo.

Insomma anche in questo caso è molto difficile trovare delle argomentazioni che sappiano esporre in modo articolato le ragioni di una scelta. Bada bene di non prendere tutto ciò come una critica. Cosa risponderesti tu se ti chiedessi per quali ragioni ti sei innamorato di Lisa? Eppure la vivi come una realtà importantissima. È giusto che sia così. Abbiamo tra le mani sempre frasi  povere per dire cose grandi.

Anch’io non ti so dimostrare fino in fondo perché credo in Gesù. Ti proporrò un discorso forse un po’ troppo culturale. Sai che amo moltissimo la pittura di Caravaggio. In una chiesa di Roma c’è un suo quadro intitolato  La conversione di S. Paolo. La scena è dominata da un grande cavallo tenuto per le briglia da un uomo qualsiasi, disteso a terra in primo piano c’è Paolo, di lui colpiscono subito due particolari: il viso con gli occhi chiusi – fu accecato da un grande bagliore – e le due braccia alzate che terminano nelle due mani aperte. Il tutto è soffuso da una luce straordinaria. Vuoi sapere il senso del quadro? Non ci sono dubbi, esso rappresenta l’uomo che si è arreso a Gesù Cristo. E questa mi pare una bella definizione della fede.  Anche se non mi paragono certo a Paolo e non sono mai stato folgorato sulla via di Damasco (il futuro apostolo stava andando in quella città per perseguitare i seguaci di Gesù) penso alla mia fede pressappoco in questi termini: qualcuno mi ha raggiunto con un’impronta che avverto come indelebile.

Un mio amico più vecchio di me quando era bambino viveva con un nonno famoso  che tutti consideravano un vero maestro tanto vasta era la sua ricchezza spirituale e la sua dottrina. Un giorno il piccolo fece al nonno una grande domanda: «Come si sente la voce di Dio?». Il saggio nonno rispose: «Si tratta di una specie di voce interna che chiama dal profondo». Per chi l’ha ascoltata è una certezza. Nessuno può però dimostrare con le parole di averla davvero udita, tuttavia può mostrarlo indirettamente attraverso la propria vita. Chi ci riesce è una persona santa, vale a dire una creatura che, con il suo modo di vivere, rende presente in mezzo a noi il Creatore. Chi si sforza di riuscirci è  una persona decisa ad incamminarsi sulla via della fede. Sono tra questi. In un certo senso si potrebbe dire che sei tu assieme agli altri a valutare se sono davvero un uomo in cui risuona la voce della fede.

 

Andrea – Sei così indaffarato e  così pieno di impegni che a volte credo che la tua religione sia il lavoro.

 

Papà – Hai ragione. Ed è per questo che la mamma –speriamo che un’altra volta ci sia anche lei – ti ha testimoniato la fede in Dio più di quanto non l’abbia fatto io che pur mi occupo quasi sempre di religione.

 

Andrea – Non ti devi scusare. Di questo riparleremo un’altra volta. Però hai toccato indirettamente il  punto a cui volevo giungere anch’io. Se per te Gesù è così importante perché il tuo studio è pieno di libri che parlano degli ebrei, dei musulmani, dei buddhisti e anche dei seguaci di altre religioni? E poi non ho mai capito perché tu che  vai a messa in parrocchia tutte le domeniche leggi più libri scritti da protestanti e ortodossi che da cattolici. Per non dire che ti ho sentito tante volte criticare i vescovi e avere ben poca considerazione dei preti. Insomma in fin dei conti qual è per te la religione vera?

 

Papà – Hai mai pensato che ti parrebbe molto strano porre una domanda del genere: quale è l’arte o la poesia vera, l’italiana, la tedesca, la francese, la cinese o l’africana?

 

Andrea – Che c’entra. È come se tu mi dicessi: guardati attorno e ti renderai conto che ci sono molte culture. Vuoi farmi scoprire l’acqua calda?

 

Papà.– Non sarei il primo a dire che molti si lasciano ingannare dalle cose evidenti. Stai attento, se si giudicassero le religioni solo come espressioni culturali di determinati gruppi umani a nessuno verrebbe mai in mente di dichiarare che ci sono religioni vere e altre false. Semplicemente ogni popolo avrebbe la sua così come avviene per le lingue, l’italiano non è più vero del tedesco o l’ungherese del cinese. Al più si possono classificare le lingue per gruppi: latine, germaniche  o, a maglie più larghe, indoeuropee, semitiche e compagnia bella. Gli storici delle religioni ragionano proprio in questo modo: studiano e classificano, ma non giudicano in base al vero e al falso. Tuttavia, pur non avendo alcun assillo scientifico, anche gli antichi politeisti non la pensavano poi in modo tanto diverso. Anche per loro ogni popolo aveva le sue divinità così come aveva i suoi usi, i suoi costumi, i suoi re e i suoi capi militari. A un certo punto sono però comparse delle religioni dotate di altre caratteristiche. Esse sostenevano  che c’era un solo Dio e che tutti gli altri dei non esistevano, si trattava solo di idoli fatti dalle mani dell’uomo. Da quel momento in poi la prospettiva è fortemente cambiata. Da allora si è introdotto nelle menti un problema semplice, semplice da formulare e difficilissimo da risolvere: perché se c’è un Dio solo ci sono tante religioni? Non pensare che si tratti di una questione accademica da discutere tranquillamente a tavolino. Non si tratta di parlare del sesso degli angeli. È infatti un problema connotato da risvolti pratici inquietanti. Li posso riassumere con un’altra domanda: come ci si deve comportare nei confronti dei seguaci delle altre religioni, li si deve trattare da amici o da nemici, li si deve considerare fratelli o rivali?

 

Andrea – Se ho capito bene la pluralità delle  religioni può essere studiata o come un fenomeno paragonabile ad altri (lingue, costumi. società, ecc.) oppure all’opposto  può essere vissuta come un problema drammatico  che sorge specie all’interno delle fedi monoteiste le quali sostengono che la loro sia la sola religione vera mentre tutte le altre sono false. È così?

 

Papà – Si è così; anche se  adesso qualcuno ti risponderebbe  che le altre non sono proprio false,  sono soltanto un po’ meno vere.

 

Andrea – E tu che da che punto di vista le studi?

 

Papà – Cerco di farlo come uomo di fede convinto  che, per comprendere le religioni, occorra passare ormai anche attraverso la cultura. Questo approccio è importante soprattutto oggi quando il mondo si è fatto piccolo e viviamo fianco a fianco con tante persone provenienti da altre culture e che professano altre religioni. D’altra parte non è ormai raro conoscere qualcuno che, abbandonata la religione cristiana in cui è stato allevato e passato attraverso un periodo di indifferenza religiosa, riscopre l’importanza della spiritualità diventato buddhista o musulmano. Per vivere in modo maturo la propria fede non si può perciò ignorare la cultura religiosa. Purtroppo la scuola italiana…

 

Andrea – Non cominciare con la solite lamentele da vecchio professore. Andiamo subito al sodo. Voglio sapere che ne è della nonna secondo le varie religioni. Insomma dove si va a finire dopo morti? Mi pare infatti che mentre gli agnostici siano nell’incertezza, le religioni abbiano, beate loro, idee piuttosto chiare sull’aldilà.

 

Papà – Ci proverò. Ma sappi che sarà un discorso piuttosto lungo. Perciò dovremo riprenderlo  un’altra volta. Spero che allora ci sarà anche la mamma.

 

 

II

 

Mamma – Ho saputo che ieri sera avete parlato della nonna e che Andrea si chiedeva dove fosse ora. Io sono sicura che Dio l’ha accolta nel suo seno. Come dice Dante «ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei».

 

Andrea – Figuriamoci se non citavi la Divina Commedia!

 

Mamma – Va bene, può essere un difetto professionale di insegnante d’italiano. Tuttavia  questa volta volevo dire, se non mi avessi interrotto, che non sono del tutto d’accordo con Dante, perché secondo me  la bontà divina è ancora più grande: accoglie tutti anche quelli che non si rivolgono in modo esplicito a lei. La morte è una specie di trampolino: si spicca il salto e invece di cadere in acqua ci si trova tra le braccia di Dio.

 

Papà  – È una bella immagine, ma non stavamo parlando esattamente di questo.

 

Mamma – E di che cosa allora? Non ci basta sapere che non siamo mai soli nella nostra morte?  La presenza di Dio ci accompagna sempre. Come dice Manzoni in relazione a Napoleone «Sulla deserta coltrice / Accanto a lui posò». Per quanto una persona possa essere abbandonata da tutti, Dio non le è lontano.

 

Papà – Andrea voleva in pratica sapere quali erano le visioni dell’aldilà delle varie religioni e vedere quale sentisse più vicina. Tu sei sicura, lui è in ricerca.

 

Andrea – Proprio così.

 

Papà – È comune a tutti noi porsi della grandi domande: «Da dove veniamo?», «Chi siamo?», «Dove andiamo?».

 

Andrea   È  quello che mi chiedo, ma chi può saperlo? Le religioni dicono che c’è Dio e con ciò trovano la risposta a tutto, ma…

 

Papà – Le cose sono molto più complesse. Devi munirti di pazienza.

 

Andrea – Anzi, di ‘santa pazienza’, come dici sempre  tu. E, trattandosi di religione, l’aggettivo mi pare adatto.

 

Papà – Va là che quando vuoi sai anche essere spiritoso! Vedi queste domande possiamo considerarle comuni. Tuttavia vi sono grandi differenze rispetto al modo in cui sono formulate. In particolare alcune religioni dicono che noi andiamo, o meglio ritorniamo, là dove siamo venuti. Per esse quel che siamo ora va inteso come una specie di passaggio tra un prima e un dopo…

 

Mamma – È così. Veniamo da Dio  e a lui ritorniamo. Ma ciò non significa svalutare  questa nostra vita terrena; al contrario è proprio in questa luce che essa diventa piena e ricca di significato.

 

Papà – Ancora una volta ci stai offrendo le tue convinzioni. Dopo tanti anni di vita in comune so bene quanto siano profonde e quanto ci abbiano aiutato. Di nuovo però devo dirti che non stavamo parlando esattamente di ciò, anche se alla fine credo che sarà la tua e non la mia la voce più vera.

 

Mamma – Fammi capire meglio.

 

Papà   Si tratta del problema della cosiddetta preesistenza. C’è qualcosa che è adesso in noi che esisteva già prima della nostra nascita? Non dico come pensiero nella mente di Dio, dico proprio come realtà, sia pure diversa dalla nostra. Insomma si tratta di una forma di esistenza, non di idee. Se esistevamo in qualche modo già prima della nostra nascita, il segreto del nostro futuro sta nel nostro passato. Non solo, anche il nostro presente dipende da quanto è avvenuto prima di noi.

 

Andrea – Mi pare di ricordare che il nostro professore di scienze abbia detto qualcosa del genere impiegando termini piuttosto complicati.

 

Papà – Avrà parlato di ontogenesi e di filogenesi.

 

Andrea – Uffa, ci hai preso anche questa volta. Sì, diceva che nel nostro sviluppo individuale noi ripercorriamo in modo concentrato le tappe dell’evoluzione; quindi quel che siamo dipende dal passato della nostra specie.

 

Papà   Qui però si tratta di un discorso biologico, mentre noi ne facevamo uno, per così dire, spirituale. Hai fatto però un riferimento interessante. Sai, a qualcuno sarebbe venuto in mente piuttosto la fisica. Da dove veniamo? Dal big bang. Dove andiamo? Ce lo dice la seconda legge della termodinamica: verso l’entropia, verso il  dissolvimento. Soltanto che in questo caso si tratta di prospettive tanto remote che non dicono in pratica nulla su quel che siamo noi ora. Il nostro vivere attuale può tranquillamente astrarsi da tutto ciò. Diverso il caso dell’evoluzione, anche lì i tempi sono lunghissimi, milioni e milioni di anni, eppure essi interagiscono molto strettamente su quel che siamo noi ora. Ci dicono che, dal punto di vista biologico, la nostra vita attuale non può pensarsi separata da tutte le altre vite.

La nostra domanda vuole proporre un discorso simile, però su un piano diverso, quello che, non riuscendo a trovare una parola migliore, chiamiamo spirituale.

Per avviarti alla comprensione del discorso è meglio pensare piuttosto alle lezioni di filosofia dedicate a Platone. In alcuni dei suoi dialoghi più famosi si avanzano dei buoni argomenti per sperare nell’immoralità dell’anima. Ce ne sono vari, ma i più robusti sono quelli che l’anima vivrà dopo la nostra morte e ciò avviene perché essa esisteva già prima della nostra nascita. La condizione in cui ci troviamo ora dipende da quanto sta alle nostre spalle. L’anima vive perciò in più corpi. Vi è una legge che regola questo trasmigrare delle anime. In filosofia con un nome complicato – e per di più anche non esatto – la si chiama metempsicosi. Se si sono commesse delle azioni non buone in una vita se  ne scontano le conseguenze in quella successiva. Si forma così un catena in cui colpe e castighi si legano a vicenda senza che ci sia bisogno di alcun giudice che condanni o assolva. Quando si mangiano troppi dolci si ingrassa, allo stesso modo se ti comporti male in questa vita ne subirai le conseguenze nella prossima, senza bisogno che intervenga qualcuno.

Questo ciclo di reincarnazioni è perciò un segno di condanna. Capisci, ora, perché l’esito davvero  positivo (in termini religiosi potremmo chiamarlo salvezza) si ha quando l’anima purificata da ogni macchia è separata dai corpi e vive un’esistenza autonoma. In questo caso è tornata alla sua origine prima, quando era, per usare questa immagine, dotata di ali.

 

Andrea –Ma di reincarnazioni non parlano anche i buddhisti? Dicono perciò la stessa cosa di Platone?

 

Mamma – Del buddhismo so ben poco, diciamo pure quasi nulla. In sostanza quelle poche cose che mi vengono in mente le ho apprese da un romanzo che qualche anno fa era obbligo leggere – e che quindi ho letto anch’io – Siddartha  di Hermann Hesse, davvero un grande scrittore. Per quanto ricordo non mi pare che ci siano tante somiglianze con  Platone.

 

Papà – Esatto. Non devi lasciarti ingannare dalla presenza della reincarnazione. È una dottrina molto diffusa. Un filosofo dell’Ottocento, Schopenhauer, ha scritto, esagerando,  che tutti ci hanno creduto tranne ebrei e cristiani. Ci sarebbe parecchio da dire, ma lasciamo perdere. È sicuro che si tratta di una credenza che a molti è apparsa utile per spiegare l’apparente anomalia che alle persone giuste e buone capitino in questa vita tante disgrazie mentre a molte persone cattive e disoneste va tutto bene. Se questa vita è solo un passaggio tra un prima e un  dopo i conti si fanno su un arco di tempo più lungo: allora torneranno.

 

Andrea – Suggestiva la faccenda. Infondo è ben comune sentir dire: se rinasco un’altra volta non faccio più questo o quello. C’è ancora la speranza di avere un’opportunità per correggere i propri errori.

 

Papà  – È una frase troppo banale. Quando si dice così si pensa solo in avanti. «Se rinasco un’altra volta». Se avvenisse non saprei di essere rinato, altrimenti dovrei già saperlo  adesso. Non c’è solo il dopo, c’è anche il prima, alle tue spalle dovrebbero esserci già tante altre vite. Nell’uso corrente è solo un modo per esprimere che non si è contenti della situazione in cui ci si trova. Non va caricata di molto peso. È meglio tornare al buddhismo, quello serio.

 

Andrea – Allora  fammi capire in che cosa i buddhisti differiscono da Platone e da tutti gli altri che credono nella trasmigrazione delle anime attraverso i vari corpi.

 

Papà – Questa volta per risponderti devo farti una vera e propria lezioncina.

 

Andrea – Va bene. Vuoi  anche che vada a prendere il quaderno per scrivere appunti?

 

Papà – Lascia perdere. Stammi invece a sentire. Comincio raccontandoti una  storia.

Secondo rade leggende, Siddharta Gautama, il futuro Buddha – vissuta nell’India settentrionale nel V sec. a.C. – fu allevato in modo tale che la sua condizione agiata – non fosse turbata dal alcunché di spiacevole. Egli però, nonostante l’opposizione paterna, per quattro volte uscì in carrozza dal suo palazzo. Nel primo viaggio si imbatté in un vecchio, nel secondo in un malato, nel terzo in un corteo funebre, nell’ultimo in un samana (mendicante religioso).Questi incontri gli aprirono gli occhi presentandosi come prime indicazioni del cammino che lo avrebbe portato a elaborare la sua dottrina stando alla quale l’esistenza in se stessa è dolore.

 

Andrea – Per trascrivere la storia in termini più attuali potrei dire che i ragazzi allevati nella bambagia non capiscono il mondo e che solo attraverso l’incontro con il dolore che ci viene incontro sulle strade della vita cominciamo a comprendere qualcosa?

 

Papà – Mi pare che tu abbia colto al volo uno dei noccioli profondi di questo messaggio. Vi sono alcune prospettive buddhiste  che giungono davvero subito al cuore dell’ascoltatore e ciò forse avviene perché quest’uomo quando cominciò a parlare non si appoggiò in modo esplicite su dottrine  precedenti e men che meno  disse di parlare in nome della divinità. Egli si misurò in presa diretta con la vita preso nel suo insieme. Ebbe cioè il coraggio di dare una risposta in prima persona a una domanda che tutti ci poniamo ma a cui  nessuno di noi  crede di rispondervi in prima persona: che cosa vuol dire esistere? Non riusciamo a farlo perché ci sembra, giustamente, che per riuscirci dovremmo raggiungere un punto prospettico che ci consente di vedere l’esistenza dal di fuori e di abbracciarne il fluire dall’inizio alla fine. Noi però siamo qualunque cosa facciamo nuotiamo dentro la corrente dell’esistenza. Siamo come dei pesci che non possono scorgere tutta la vastità del mare perché per farlo dovrebbero osservala da un promontorio ma se fossero lassù morirebbero.

 

Andrea – È bello parlare con te, a volte hai delle immagini davvero forti.

 

Papà – Sai come alcuni religioni hanno risolto questo problema? Hanno sostenuto una cosa di questo tipo: noi non possiamo guardare la vita dal di fuori, però qualcosa dall’alto può scendere verso di noi. Dio comunica con gli uomini. In teologia questo processo si chiama rivelazione. La forma più classica di rivelazione è costituita dalla parola. Dio parla e c’è chi è in grado di prestargli ascolto. Questi individui sono spesso chiamati profeti.

 

Mamma   Questo lo capisco bene. La Bibbia e per quanto ne so anche il Corano  dicono proprio questo. Sono due libri rivelati e conoscono i profeti come persone che comunicano agli uomini la volontà di Dio e comunicano loro il senso dell’esistenza. .

 

Papà   Ci sarebbero varie precisazioni da compiere, ma la sostanza è questa. Per usare un’immagine spaziale: qualcosa dall’alto e scesa in basso.

 

Mamma – La grandezza del cristianesimo sta nel fatto che non già una semplice parola o un libro ma lo stesso Figlio di Dio è sceso nel mondo nel mistero dell’incarnazione. Dio si è fatto uomo cosa c’è di più sconvolgente?

 

Papà  – Di questo parleremo un’altra volta. Avevo alluso a questa prospettiva per  noi  più familiare  solo per  contrasto per indicare che per Gautama le cose non stettero affatto in tal modo: non ci fu alcun Dio alcunché. Sai cosa vuole dire Buddha?

 

Andrea –Non è un nome proprio?

 

Papà – No,  è un titolo. Vuol dire l’«Illuminato».  

 

# # # #

 

Papà –Vi leggo un brano da un testo buddhista: «Per il volgere  di molte nascite corsi senza tregua cercando il costruttore della casa [cioè la causa delle rinascite].Orribile eterna rinascita. O costruttore ti ho scoperto; tu non fabbricherai più alcuna casa. Infrante sono le tue travi e il tetto della casa è distrutto. Il cuore fatto libero ha estinto ogni brama».

 

Mamma – Ah già, ricordo. Se non sbaglio è una frase citata  da Massimo Mila – il grande musicologo – nella sua «Nota introduttiva» a Siddharta. Anzi, vi aggiunge una osservazione intelligente. Dice che per misurare la distanza tra Oriente e Occidente basterebbe questa immagine della casa. Per noi è naturale intenderla  come positiva. Aggiungo, lo è anche nel vangelo: «Beato l’uomo che costruisce la propria casa sulla roccia». In questo testo essa è invece, senza rimedio, negativa. Da una parte bisogna costruire, dall’altra disfare. Ero rimasta perplessa quando una mia collega mi ha detto: «adesso che sono diventata buddhista mi sento proprio realizzata». Avvertivo in modo epidermico che c’era qualcosa che non andava. Adesso ho capito, parlava un linguaggio della costruzione («realizzarsi»), mentre il senso autentico del messaggio buddhista è piuttosto l’opposto. Il suo è dunque un buddhismo occidentale dove l’aggettivo prevale sul sostantivo?

 

Papà – Direi proprio di sì.

 

Andrea – Andrea per  favore siate un po’ più semplici.

 

Papà

 

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Mamma – Mi è capitata in mano in questi giorni una lettera scritta da un vescovo alla sua diocesi. Citava un passo di un teologo del Novecento, Karl Rahner. L’ho annotata perché mi pare esprima molto bene il senso cristiana della morte. In verità si tratta di un  incontro e non di una scomparsa. «Allora Tu sarai l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo (…) Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e sperimentare saranno divenute la stessa cosa». Cessa la parola umana, ma nel silenzio risuona una parola infinitamente più autentica che si farà rinascere per sempre e in cui vedremo tutto nella luce di Dio. 

 

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Intermezzo ferroviario

 

Giovanni (papà) – Ciao Vincenzo, come è bello rivederti.

 

Vincenzo – Ciao Giovanni, come va?

 

Giovanni – Diciamo sempre che bisogna vederci e poi se non ci incontriamo in stazione… Ma è da quando eravamo compagni di scuola che parliamo e anche quando passa del tempo il discorso fluisce veloce e spontaneo.

 

Vincenzo – Ma certo. Ci siamo sempre capiti e continueremo a farlo. Senti in famiglia come va? So che avevi qualche preoccupazione per il tuo ragazzo.

 

Giovanni – C’è una bella novità: è un po’ di tempo che parliamo di più tra  noi e su argomenti non di poco conto.

 

Vincenzo – Su cosa discutete?

 

Giovanni  – Di religioni.

 

Vincenzo – Ah, che bello! Sai che non sono credente, ma ho sempre avuto un grande interesse per questi argomenti. Condivido quello che ha avuto modo di dire una mia amica, anche lei non credente, che ammiro molto sia per il suo impegno politico sia per la sua onestà intellettuale: «credo che ciò che gli uomini hanno pensato di Dio faccia parte della più alta elaborazione umana». Non me la sentirei più dire, come sosteneva da giovane, che Dio è un’illusione o addirittura un inganno. Dio è un’aspirazione profonda dell’animo umano. Il che, è ovvio, per me significa che l’uomo è padre di Dio e non viceversa.

E di quale aspetti della religione vi state occupando?

 

Giovanni – Soprattutto dell’aldilà.

 

Vincenzo – Questo mi interessa meno. Se mi consenti un’espressione un po’ ironica so che l’aldilà costituisce una specie di ‘riserva di caccia’ delle religioni. Ma a me preoccupa vivere bene questa mia vita, secondo le mie convinzioni l’unica che c’è, o comunque l’unica di cui val la pena occuparsi. L’‘altra’, in ogni caso, non è di mia competenza. So che le religioni hanno fornito un contributo importante anche in riferimento alla nostra esistenza terrena. Hanno pronunciato parole sapienti e cariche di significato in rapporto ai modi di vivere, alle relazioni con il proprio prossimo, al rispetto per gli altri, alla solidarietà, alla nonviolenza, alla giustizia. A volte sono state motori anche di profondi rivolgimenti sociali e hanno dato anima all’aspirazione verso il raggiungimento di un mondo più umano. È vero però che in altre occasioni hanno mostrato un volto ben più terribile. Hanno alimentato la violenza, la discriminazione e, soprattutto,  l’intolleranza. Vedi, in un certo senso esse mi affascinano  proprio per questo loro essere una specie di Giano bifronte: un volto è dolce e accogliente, l’altro è duro e spietato. Per me sono un rebus. Per esempio lottano contro l’idolatria dicendo che non c’è nulla sulla terra che vada preso per un assoluto e che niente merita una venerazione incondizionata – e su questo sono perfettamente d’accordo – e poi rischiano di far diventare un idolo la loro stessa lotta contro l’idolatria presentandosi a propria volta come degli assoluti. Il Dio trascendente costituisce  certo la più radicale negazione di ogni idolatria, eppure i seguaci delle religioni monoteiste si sono troppo spesso comportati da idolatri.

 

Giovanni – Capisco  benissimo. Ma il fatto è che parlare di religioni in un certo senso è già un’astrazione. Non a caso alcune di esse, per esempio l’ebraismo e l’islam, in senso stretto non conoscono neppure questa parola. Al loro posto impiegano termini che potrebbero rendersi con diritto, norma, legge. Quanto esiste nella storia sono in realtà le singole comunità religiose. Molte delle ambiguità vanno spiegate partendo da questa constatazione: le comunità religiose sono umane troppo umane. Questa è la loro grandezza e la loro miseria.

Piero Stefani

 

 

 

75 – Dialogo in famiglia sulle religioni (17.07.05)ultima modifica: 2005-07-16T09:30:00+02:00da
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