Il taccuino di Piero Stefani
La fase più recente della presenza ebraica a Ferrara sotto il profilo della sua percezione urbanistica inizia negli anni Ottanta. Essa non ha apportato modifiche nei luoghi, tuttora determinati dall’asse che va dall’antico ghetto al cimitero di via delle Vigne. Il vero mutamento sta nella percezione di quelli che ormai si definiscono i beni culturali ebraici. Il punto di svolta può essere individuato nelle grandi mostre, in particolare quella denominata Meraviglie dal ghetto, svoltesi a Palazzo dei Diamanti tra la fine negli Ottanta e l’inizio del decennio successivo (impatto, in un certo senso, rafforzato dal grande successo goduto dall’esposizione riservata a Marc Chagall).
Da quel momento in poi nella nostra città si è avviato un processo di evidente musealizzazione dei beni culturali ebraici. Con questa espressione si intende sia l’apertura di spazi specifici, sia la creazione e il consolidamento di un accesso culturale pubblicamente riconosciuto alle testimonianze della vita e della religione ebraiche. Il fatto che presso la sede della comunità di via Mazzini ci sia ora un pregevole museo ebraico è solo un risvolto, per quanto non trascurabile, della questione. La sua presenza infatti non si limita a mettere in mostra oggetti rituali, documenti e testimonianze ebraiche: essa crea una percezione nuova nel modo di cogliere l’intero edificio, sinagoghe comprese.
Da questo punto di vista i luoghi ebraici di Ferrara sono diventati sempre più omogenei a una modalità di approccio da tempo riservata alle chiese cattoliche. La duplice funzione di essere tanto luoghi di culto quanto testimonianze artistiche da spesso luogo a tensioni antitetiche alla scelta che, all’origine, creò quel connubio. Nella maggior parte dei casi l’incontro tra l’accesso devoto e quello artistico-turistico- culturale restano disgiunti. La crescente presenza in altre città di orari e modalità differenziati per i due modi diversi di entrare in chiesa codifica la presenza di questa biforcazione. Il pagamento di un biglietto omogeneo con un tipo di accesso, ma del tutto incompatibile con l’altro, ne costituisce il segno più agevole da cogliere.
Naturalmente nel caso dell’edificio di via Mazzini le cose sono un po’ diverse. I tempi normativo-liturgici ebraici e la ridottissima consistenza numerica della comunità ferrarese fa sì che le sovrapposizioni siano assai ridotte. Al sabato e nelle feste il museo resta chiuso e nei giorni feriali non si svolgono preghiere comunitarie. Ciò non toglie che la modalità di visita museale tenda oggettivamente a interpretare la sinagoga come “la chiesa degli ebrei”. Ciò avviene anche per la difficoltà di cogliere le peculiarità di quel luogo (cfr. ad es. la polarità ’aron –armadio sacro – bimà – paragonabile all’ambone) prescindendo dal loro impiego cultuale.
Il processo di musealizzazione dell’area del ghetto sfocia in un accesso culturalmente riconosciuto di quella che un tempo era una dimensione separata e discriminata. Lo stesso vale per altre aree ebraiche. Fino a non moltissimi anni fa solo sgusciando tra i pullman del’ex deposito delle corriere si poteva intravedere il piccolo cimitero ebraico di via Arianuova.; mentre oggi, oltre a essere assai più visibile, è considerato meritevole di mostre (cfr. quella tenuta l’anno scorso al Liceo Ariosto). La sua crescente riconoscibilità pubblica è, del resto, comprovabile pure in altri modi, compreso il personalissimo e irrealizzabile desiderio espresso da Gianfranco Rossi – una figura di cui sentiamo la mancanza – di essere sepolto là, all’ombra del grande ciliegio selvatico (cfr. le prime pagine di La maldicenza).
Vista in questa luce la musealizzazione dei beni culturali ebraici fa parte di un processo storico di “democratizzazione delle memorie”. Appunto per questo essa si inserisce nella sfida, tipica di tutte le minoranze, di tutelare a un contempo uguaglianza e diversità. In questa luce la via del museo è fin troppo facile. Essa infatti tende, per sua natura, a privilegiare un passato ormai trascorso (cfr. ad es. i musei della “civiltà contadina”) o quanto meno prossimo all’estinzione. La memoria del museo rischia di essere accomunante proprio perché è rivolta alle testimonianze, senza che da essa nasca un impegno.