IV Domenica di Pasqua (B) – Un gregge di chiamati

IV Domenica di Pasqua
At 4,8-21; Sal 118 (117); 1 Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

Un gregge di chiamati

La liturgia di questa domenica ci propone la parte finale della pericope del «buon Pastore» (Gv 10,11-18). Essa è incentrata su due temi: il pastore dà la vita a favore delle pecore ed è consapevole di avere pecore di altra provenienza. Nella vita comune le cose non stanno così, il pastore custodisce e alleva le pecore perché dal loro benessere dipende il suo; se ne prende cura anche a proprio vantaggio. Tuttavia è immaginabile andare oltre e affermare che esistano pastori effettivamente in grado di amare in modo disinteressato gli ovini loro affidati, ma anche se si toccasse l’ipotesi estrema di un sacrificio a loro favore, ciò non comporterebbe una donazione di sé a vantaggio di altre pecore appartenenti a greggi differenti. La qualifica di pastore che Gesù applica a se stesso non può prescindere né dall’articolo determinativo né dall’aggettivo (in greco kalos è in genere dotato del significato di «bello»), né soprattutto dall’espressione completa ripetuta due volte a distanza di poche righe: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.13). Tutto ciò vuole rimarcare la presenza di una unicità. La più grande tra tutte le diversità tra Gesù e un qualunque altro pastore si concentra però in una caratteristica propria solo del Figlio: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18). È questo potere a consentirgli di sacrificarsi sia per le pecore che già lo conoscono (Gv 10,14) sia per quelle appartenenti ad altri greggi.
Preoccuparsi delle pecore che sono altrove ha senso solo se si è nelle condizioni di riprendere la vita che si è offerta. Fin dall’età patristica le altre pecore sono state identificate con i gentili, vale a dire con i non ebrei. Gesù ha offerto la propria vita anche per loro. Il riferimento privilegiato sta nel leggere il passo giovanneo sulla scorta di un brano tratto dalla lettera agli Efesini. Scrive Gregorio Magno: «Egli fa dei due greggi quasi un solo ovile, poiché unifica nella sua fede il popolo ebreo e quello pagano. È quanto attesta Paolo che afferma: “Egli è la nostra pace, è colui che dei due ha fatto uno” (Ef 2,14). Quando egli da entrambe le nazioni chiama i semplici alla vita eterna, conduce le pecore al proprio ovile» (Hom. in Ev., XIV, 4; PL 76,1129).
«Chiama i semplici alla vita eterna»; un solo gregge, un solo pastore, ma si tratta di un gregge di chiamati, non di nati dalla «carne e dal sangue» (Gv 1,13). Per far parte del gregge occorre ascoltare la voce. Il brano della lettera agli Efesini a cui si riferisce Gregorio è molto complesso. Nel Nuovo Testamento comunque non vi è mai alcuna indicazione dell’esistenza di un popolo nuovo in cui confluisce quello di Israele. In base a una traduzione letterale i versetti in questione suonano così: «Perciò ricordate che un tempo voi, le genti nella carne dette prepuzio da quella che è detta circoncisione fatta con le mani nella carne – che voi in quel tempo eravate separati da Cristo, lontani dalla comunità d’Israele e stranieri alle disposizioni piene di promesse, senza speranza e senza Dio (atheoi) nel mondo. Ma ora siete in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate “lontano” ora siete divenuti “vicino” nel sangue di Gesù Cristo (cfr. Is 57,19; 52,7). Giacché egli è la nostra pace, colui che ha fatto di ambedue uno» (Ef 2,11-14).
La consapevolezza di essere stati «stranieri», estranei ed «atei» la si ha non già quando ci si trova «nel mondo», ma solo in modo retrospettivo quando, in Cristo, si è costituiti eredi, tramite suo, della promessa (cfr. Gal 3, 29). Vale a dire in precedenza le pecore non sapevano di appartenere a un altro ovile e di avere un altro pastore. A esserne consapevole era solo il buon pastore. Poi, dopo, quando lo incontreranno e lo ascolteranno, conosceranno quanto è stata grande la loro passata lontananza e quanto è preziosa la loro attuale vicinanza. Nella vita dei chiamati alla fede è sempre così: seguire il buon pastore significa essere tratti fuori dal proprio recinto per abitare nel suo. Ciò comporta uscire da se stessi per trovare il proprio autentico sé nella relazione con Lui.

IV Domenica di Pasqua (B) – Un gregge di chiamatiultima modifica: 2018-04-20T08:49:05+02:00da piero-stefani
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