613 – Parola, creato e storia (07.05.2017)

Il pensiero della settimana, n, 613

Parola, creato e storia [i]

 La natura nulla dice della Bibbia, mentre quest’ultima compie alcune affermazioni sul creato. Il problema perciò diventa acuto quando si sovrappongono i due termini di creazione e natura; solo allora è pertinente chiedersi se le affermazioni bibliche relative al creato abbiano o meno qualche attinenza con il campo proprio delle indagini naturali. Si tratta di un problema di ordine metafisico-teologico. Unicamente nell’ambito di questa forma di sapere si è nelle condizioni di confrontare tra loro due termini altrimenti ben distinti: creato per la Bibbia, natura per la scienza. La speculazione metafisico-teologica ha infatti la pretesa di interagire tanto con la Scrittura quanto con la natura. Proprio questa interconnessione ha fatto sorgere un nugolo di problemi specifici della cultura occidentale di cui né il mondo classico, né quello  biblico avrebbero mai sospettato l’esistenza.

      Per citare un esempio fra i tanti, riferiamoci a un breve testo che riguarda da vicino il nostro tema. Un noto fisico e pastore anglicano contemporaneo John Polkinghorne, in  un suo articolo risalente a una decina di anni fa (Ma Dio non è un «orologiaio cieco» in «Vita e Pensiero» 5, 2008,  pp. 104-110), cerca di coniugare tra loro il  problema del tempo, l’ordine fisico del mondo, la libertà umana e l’immagine del Dio biblico. Di fronte a questo plesso di problemi va ribadito che il contesto in cui  essi sorgono è solo quello teologico. Polkinghorne, cioè, può discutere simili argomenti non nella sua qualità di scienziato, di filosofo della scienza o di biblista, ma solo in quanto studioso interessato al sapere teologico. Soltanto una riflessione razionale che  vuole confrontarsi sia con la rivelazione biblica sia con l’ordine della natura è nelle condizioni di sollevare (molto più che di risolvere) siffatte interrogazioni. In definitiva, l’espressione «teologia e fisica» è pertinente in quanto relativa a saperi tra loro distinti, ma confrontabili, mentre non lo è affatto la  formulazione «Bibbia e fisica», problema che, non a caso, Sergio Quinzio, nella sua qualità di lettore e commentatore della Scrittura, ha sempre ignorato. Quando Quinzio dichiarava che bisognava leggere il mondo alla luce della Bibbia (e non viceversa) pensava alla storia e non alla natura. Per questo motivo per lui duemila anni, tempo insignificante rispetto al cosmo, costituivano già un abisso senza fondo rispetto al quale far sorgere domande lancinanti relative al ritardo della venuta di un regno  annunciato vicinissimo da Gesù e dagli apostoli.

Le osservazioni appena compiute non negano che nella Bibbia ci siano visioni cosmologiche legate alla temporalità e che esse abbiano influito sull’elaborazione di un sapere che ha come proprio oggetto i fenomeni naturali. Tuttavia la sfera d’azione di quest’ultimo rilievo non è tanto la ricerca scientifica odierna quanto la storia della scienza. Come affermato da Polkinghorne, al giorno d’oggi un fisico può compiere le proprie ricerche prescindendo dalla lettura persino delle opere di Newton. Di contro, osserva ancora il teologo anglicano, nessun credente può rinunciare alla convinzione secondo la quale la Bibbia è un libro dotato di perenne attualità in quanto custodisce la parola di Dio. I credenti non sono nelle condizioni di dichiarare superata la Scrittura. Tuttavia è fuori discussione che si tratta di un testo antico legato a visioni cosmologiche, antropologiche, sociali, culturali molto distanti dalle nostre. Il problema ermeneutico di come interpretare la Bibbia non è quindi aggirabile.

Gli assi spazio-temporali cosmici non hanno rapporto alcuno con i tempi della salvezza, almeno nel caso in cui  con il termine «salvezza» ci si riferisca a una realtà che ha qualcosa da spartire con le nostre vite (e come potrebbe essere diversamente?). Da questa constatazione nasce un parallelismo concettuale che ci impedisce d’immaginare le forme in cui la salvezza sarà vissuta al di là della morte. I tempi di Dante in cui c’era armonia tra fisica, metafisica, paradiso e Dio biblico sono tramontati per sempre. «L’amore che move il sole e l’altre stelle» ci dice ancora tutto rispetto alla costruzione della Commedia; se assunto in maniera allusiva, ci comunica ancora molto nei riguardi di Dio; mentre non ci dice più nulla rispetto al rapporto tra Dio e il cosmo. Quest’assenza è dotata, per forza di cose, di ricadute sulla relazione tra Dio e noi sue povere creature che aspiriamo a una salvezza che ci è ormai arduo riempire di contenuti. Il regno ha senso solo se riscatta e redime le nostra vite; mentre la terra rischia di non aver senso alcuno all’interno di un universo che la trascende irrimediabilmente nello spazio e nel tempo. Pascal, a differenza di Dante, lo sapeva e per uscire dall’assurdo si affidò al pensiero. Due secoli dopo Nietzsche, di fronte ai tempi cosmici della natura, ridusse a illusione la posizione stessa degli «intelligenti animali» che presumono di sapere. Con tutto ciò, se noi oggi guardiamo ancora a Dio e alla sua salvezza lo facciamo in riferimento alle nostre vite e non già ai miliardi di anni che contraddistinguono l’esistenza del cosmo.

Piero Stefani

[i] Sintesi dell’intervento svolto nel corso della giornata dedicata a Sergio Quinzio intitolata, «Creatore del cielo e della terra»: i tempi della fede e quelli dell’universo, Monastero di Montebello,  25 marzo 2017, di prossima06 pubblicazione sulla rivista «Mediterraneo».

 

613 – Parola, creato e storia (07.05.2017)ultima modifica: 2017-05-06T06:00:17+02:00da piero-stefani
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