574 – De arte scribendi (26.06.2016)

Il pensiero  della settimana, n. 574

De arte scribendi

      In un suo uso proverbiale il termine «goccia» è un singolare che sta per un plurale orientato al conseguimento di un fine unitario: gutta cavat lapidem. Una sola goccia non scava nulla, per raggiungere lo scopo occorre una lunga e solidale collaborazione. Una moltitudine di deboli piega il forte. Il termine indica però anche un concentrato che raccoglie dentro di sé quanto altrove è diluito: «basta una goccia». Quando è dispersa nel mare, la goccia simboleggia invece l’incapacità di raggiungere con le proprie forze lo scopo prestabilito: tenacia e concentrazione non sempre bastano.

   Gli aforismi sono paragonabili a gocce: a volte scavano in virtù della loro concentrazione, a volte si disperdono, a volte è il loro stillicidio a mutare la situazione .

      La piccola grandezza dell’aforisma risulta evidente dal fatto che chi non ha nulla da dire può scrivere all’infinito.

      Descrizione di un aforisma ben riuscito: concisione, righe spoglie incise sulla pagina. Ogni espansione comporterebbe una perdita. La carta bianca sta alla scrittura come il silenzio alla voce: ne delimita il senso.

 

     Fermare un pensiero sulla carta. Quando l’operazione giunge a buon fine, non significa arrestare un flusso; al contrario, equivale a rivestirlo di parole appropriate che lo rendono comunicabile. Fermare qui significa consegnare a se stessi e ad altri.
     Chi scrive dovrebbe trattare le parole allo stesso modo in cui nella vita bisognerebbe comportarsi con il proprio prossimo: premura e riguardo, ma anche rigore ed equilibrio.
     La vocazione allo scrivere si manifesta solo quando si comprende che la precisione linguistica è una meta verso cui tendere senza mai poterla raggiungere in modo definitivo. Per questo motivo la concisione è più evocativa della lunghezza.
     La compiuta perfezione non è raggiungibile in alcuna opera umana, compreso lo scrivere, ma ce se accorge davvero solo quando si fa di tutto per tendere a essa, non quando la si mette in conto a priori.
     La musica e la poesia esigono una successione temporale, ciò consente loro di  essere ospiti interiori in una forma non concessa alle arti figurative. Un’immagine balena, una melodia o un verso abitano. I detti o gli aforismi non sono riconducibili né all’uno né all’altro estremo, si radicano nella memoria senza conformarsi all’intimo fluire del tempo.
     C’è lo scrittore «pittore» e lo scrittore «scultore». Il primo parte dagli schizzi e aggiunge; il secondo taglia e dà forma iniziando da una massa sovrabbondante. Si può conseguire  l’eccellenza per entrambe le vie; ma è lo «scultore» a conoscere di più cosa significa il rigore e il sacrificio: «Comporre non è difficile, ma è estremamente difficile eliminare le note superflue» (Johannes Brahms). È il «levare» di Michelangelo.
     «Solo la mano che cancella / può scrivere la verità» (Meister Eckhart). Solo chi è capace di discutere criticamente i propri pensieri e ha la forza di rimettersi in discussione? O è la pagina bianca divenuta non scritta che tutto può di nuovo accogliere?
     Perché la parola sia poetica deve avere attorno a sé il respiro largo del silenzio. La sua concentrazione esige molti spazi bianchi.
     Una frase è  «toccante» solo se è breve. Allora la parola assume un corpo ed entra nella sfera del tatto. Davanti a essa si dischiude un “crescendo”: stretta di mano, abbraccio, bacio.
     Il linguaggio figurale nella sua massima potenzialità coniuga assieme due qualità di solito disgiunte: precisione e allusività, se manca la prima la seconda si sperde nella vaghezza.
     Bisognerebbe imparare a scrivere così come Haydn componeva (specie nel caso delle sue ultime sinfonie): costruzione e immaginazione, rigore nella forma, libertà nei contenuti. L’equilibrio è perduto ogni qual volte i secondi termini pretendono di dettar legge ai primi.
     La memoria personale ha sempre un proprio spazio nella cassetta degli attrezzi di chi scrive; ma in genere gli esiti sono più alti tanto più la sua presenza è discreta e indiretta.
     Negli scritti di chi raccoglie pensieri ricorre spesso al verbo «potere». Il porre domande e il formulare giudizi sono procedure che si appoggiano sul possibile e non solo sul reale.
     Quando si parla gli ascoltatori prestano attenzione alle parole del relatore, quando si scrive sarebbe bene pensare che i lettori hanno a che fare non con l’autore ma con un libro a cui lo scrittore ha affidato parte del suo pensiero. L’autore è nascosto nel suo libro ormai consegnato ad altri. La differenza tra la forma di comunicazione orale e quella scritta resta incolmabile.
     L’intellettuale autentico è colui che cerca di interpretare il mondo mediante i libri e questi ultimi attraverso il mondo. Il letterato è chi vuole interpretare i libri con i libri: per lui essi costituiscono il vero mondo.
     Le bibliografie complete di un autore si basano sulla falsa convinzione che tutto sia da conservare. Sono la negazione del senso critico e della selettività della memoria. Sono sistematiche ma in senso proprio sono anche scriteriate. L’unico criterio adottato è quello della paternità o maternità. Nella vita si compiono tanti atti, la maggior parte dei quali merita di essere consegnate all’oblio al fine di conservare quelli che davvero contano. Quanto  vale per la vita ha ragion d’essere anche per lo scrivere: per salvaguardare i frutti migliori bisogna consegnare la maggior parte della propria produzione al macero, letterale o metaforico che sia.
     Nelle pubblicazioni attuali, specie saggistiche, l’elenco dei ringraziamenti hanno una irresistibile tendenza ad allungarsi: un segno minore dell’americanizzazione del mondo. È un riferimento agli altri, ma il più delle volte è anche un modo per continuare a parlare di se stessi. Quanto sono lontani i tempi dell’Imitazione di Cristo: «Non ricercare chi abbia detto questa cosa, ma presta attenzione a cosa vi è detto».
     Per chi è dominato dalla libido sciendi, l’angoscia si manifesta innanzitutto nella ineliminabile eccedenza di quanto si dovrebbe conoscere rispetto a quello che effettivamente si sa.  Non è raro che per liberarsi del disagio si intraprenda la via paradossale di iniziare a scrivere.
     Vi sono due tipi di saggisti: quelli che vogliono  esprimere  il proprio pensiero e perciò citano altri autori e quelli che, al contrario, vogliono prima di tutto comprendere il  pensiero altrui. I primi sono più creativi dei secondi, in compenso questi ultimi sono più rigorosi e fini dei primi.
     «Nulla di nuovo sotto il sole» detto proverbiale del biblico Qohelet. L’intellettuale narcisista (specie se ignorantello) è una specie di anti-Qohelet: si pavoneggia di essere il primo a pensare e formulare determinate asserzioni che sono già state pensate e dette da gran tempo.
     La grandezza degli autori teatrali sta  tanto nel fatto che è a loro precluso dire «io» quanto nell’essere obbligati ad assumere una pluralità di punti di vista.
     L’espressione: «è un libro frutto di vent’anni di lavoro» è, non di rado, un semplice eufemismo per coprire il fatto che ci si trova di fronte a un testo costituito da una riproposizione, con al più lievi varianti, di quanto si è già pubblicato in passato.
     Lavoro intellettuale. I tempi della crescita personale sono lunghi, in realtà durano tutta la vita. Per ricorrere a un’espressione rubata dalla mistica, per anni si lavora in una specie di «notte oscura». Quando si è nella sincerità, la condizione fa parte della difficile scelta di fondo compiuta «in principio». Poi può avvenire che, all’improvviso o lentamente (a seconda dei casi), si entri nel giro. Qui iniziano altri problemi: si è presi in un vortice difficile da dominare e da cui, al contrario, è molto facile essere dominati. Dopo la notte più che il giorno ci sono le luci della ribalta, per pochi sfolgoranti, per molti intermittenti. Nel mondo d’oggi ai maestri è richiesta una saggezza inedita di cui è molto arduo essere dotati.
     Se non ci fossero fraintendimenti la quantità di carta scritta o di file presenti nel mondo sarebbe decisamente minore. Cercare di chiarire quanto si è detto o scritto è un’attività senza fine perché, di norma, ogni ulteriore spiegazione è a sua volta fraintesa. Conclusione scontata è giungere a un «non vale la pena di continuare, smetto». Per questa ragione, ogni passo in più compiuto nel tentativo di spiegarsi è, nel caso in cui non sia mosso da rancore o senso di rivalsa, un ostinato gesto di fiducia nella comunicazione.
     P.C. che cosa lo costituisce davvero personal ? I dati conservati nella sua memoria. Sono loro a renderlo non intercambiabile con un apparecchio di nuova generazione, quando lo si acquista in esso va riversato quanto c’era nel vecchio. Visto in questa ottica lo schermo può mutarsi in una specie di specchio. Persino nella tecnologia il vissuto rivendica la sua parte.
     Fare interviste. Se ci fosse la categoria professionale degli intervistatori essa dovrebbe avere come proprio logo la luna: vivono di luce riflessa e aumentano e diminuiscono secondo le rotazioni proprie e altrui.
     Quando la lettura diviene una semplice materia prima per la produzione di manufatti culturali si è inesorabilmente entrati nella logica della catena di montaggio.
     Molti intellettuali possono scrivere sul fallimento della civiltà occidentale, del cristianesimo, del pensiero, dell’arte ecc. pochissimi sono in grado di accettare che fallisca il libro in cui si denunciano tali fallimenti.
     L’onore delle armi concesso post mortem: «era un autore schivo», apprezzamento di cui gli intellettuali famosi gratificano la persona colta che, forse anche a motivo del loro lavoro di sbarramento, non ha goduto in vita del riconoscimento che avrebbe meritato. Adesso ammettere che valeva più di loro non è più pericoloso, anzi diviene  addirittura un atto magnanimo.
     La Bibbia poliglotta: il fuoco di Pentecoste si è posato sulla torre di Babele senza per questo raderla al suolo.
Piero Stefani

 

 

 

 

574 – De arte scribendi (26.06.2016)ultima modifica: 2016-06-25T08:00:14+02:00da piero-stefani
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