568 – Che peccato non parlare più di peccato (15.02.2016)

Il pensiero della settimana 568

 Che  peccato non parlare più del peccato

        All’interno della tradizione cristiana ogni discorso sul pentimento, sul perdono e sulla misericordia presuppone come suo necessario precedente l’esistenza del peccato. Si tratta di una parola che ha ricoperto, per molti secoli, un ruolo centrale nell’insegnamento dogmatico e nell’azione pastorale della Chiesa. Anzi, si può e si deve risalire più indietro; occorre infatti affermare che essa è presente nelle stesse formulazioni più antiche del kerygma. Persino Paolo, trattando di questo tema, si riferisce a un annuncio a lui precedente: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che ho anch’io ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture … » (1Cor  15,3-5). In uno dei testi più antichi della fede cristiana, si trova, perciò, un rimando a un’affermazione ancora  precedente.

     Fin dall’inizio si dichiara che Gesù morì per i nostri peccati; tuttavia oggi è sempre più difficile sapere come riempire di contenuti la formulazione. Come intenderla? Un tempo si sarebbe subito risposto: significa che Gesù ha compiuto un’espiazione vicaria volta a soddisfare la giustizia divina. Ai nostri giorni però ci riferiamo alla morte di Gesù in termini di condivisione e di solidarietà, mentre ci è diventato quasi incomprensibile parlare di espiazione. Anche guardando a più vasto raggio, la dimensione della sofferenza ci è prossima, mentre  quella del peccato ci è lontana. Nel giro di un lasso di tempo relativamente breve, il peso ossessionante posto per secoli sul peccato si è dissolto come neve al sole. Nelle nostre società e in noi stessi domina il senso psicologico di colpa mentre latita quello teologico di peccato.

     Anche se non sappiamo più bene cosa sia il peccato, siamo ugualmente consapevoli di aver bisogno di perdono. Il poeta cappuccino Agostino Venanzio Reali scrisse sul letto di morte alcuni frammenti posti sotto il titolo di Paglie. Uno di essi si intitola  Carico

Mio Dio
sono pieno di peccati
come un carro di fieno
di un tempo.
Ma so che basta
una goccia del tuo sudore
per tutto incenerire
quel ch’è mio.

 

     Nell’immagine campestre di un carro stracolmo di fieno odoroso è espressa la fiducia che il peccato venga trasformato in qualcos’altro. In essa è affermata anche la speranza  che l’atto di bruciare quel che è mio (il peccato) non annichilisca tutto, ma riveli quello che di «tuo» c’è già in me. Questi versi posti all’estremo della vita dicono il predominio del perdono; in quel fieno «peccaminoso» la fragranza prevale sul carico.

    Per parlare di peccato la poesia è per noi una voce più eloquente della dogmatica. In ogni caso resta comunque un peccato non parlare più del peccato.

Piero Stefani

 

 

568 – Che peccato non parlare più di peccato (15.02.2016)ultima modifica: 2016-05-14T08:11:15+02:00da piero-stefani
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