557 – Predilezione per i poveri? (28.02.2016)

Il  pensiero della settimana, 557

Predilezione per i poveri?

       Si torna spesso ad ascoltare il detto secondo cui Dio predilige i poveri. È giusto  ripeterlo ma solo se la frase è accompagnata dalla convinzione che i poveri sono anche i testimoni viventi delle nostre omissioni, se non addirittura delle nostre sopraffazioni. Né è del tutto da scacciare il prosaico interrogativo se sia proprio precluso godere di forme di predilezione umanamente più gratificanti di quella di essere poveri.

        «I poveri infatti li avete sempre con voi» dice Gesù (Mt 26,11; Mc 14,8; Gv 12,8)». I poveri li avete sempre con voi appunto perché essi sono la prova provata della nostra omissione. Un passo dell’apocrifo Vangelo degli ebrei ci consente di interpretare liberamente la frase di Gesù nell’orizzonte del nostro non fare. La prima omissione  nei confronti dei poveri è, comunque, far finta di non accorgersi della loro presenza. È una tentazione che ci assale a ogni angolo di strada.

Sta scritto in un Vangelo intitolato Secondo gli ebrei […] L’altro uomo ricco gli domandò «Maestro, che cosa devo fare di buono perché viva?». Gli disse: «Uomo, fa’ la Legge e i Profeti». Quello rispose: «Già l’ho fatto». Gli disse: «Va’, vendi tutto quello che possiedi e distribuiscilo ai poveri». Ma il ricco incominciò a grattarsi la testa e la cosa non gli piacque. Allora il Signore gli disse: «Come puoi dire: “Ho fatto la Legge e i Profeti”? Sta scritto infatti nella Legge: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Ora molti tuoi fratelli, figli di Abramo, sono coperti di sterco e muoiono di fame, mentre la tua casa è colma di beni, ma da essa non esce assolutamente nulla per loro[1]».

        Le nostre case sono troppo spesso simili a quella di quel ricco. Vi è di più; per noi è obbligo  avanzare una domanda non posta dal Vangelo: a scapito di chi le nostre case si sono riempite di beni? Anche se si trattasse di frutto del nostro onesto lavoro, esso non sarebbe pienamente conforme alla Legge e ai Profeti: le ricchezze contrassegnano una disuguaglianza che stride con l’uguaglianza presupposta dal comandamento che ha al proprio centro un «come te stesso».

I poveri sono la prova di quanto grave sia la dimensione derivata dal “non fare”. In luogo del «fare la Legge e i Profeti» c’è il nostro “non fare”. Essere povero non significa solo essere privi di beni; la povertà è prima di tutto frutto della mancanza di lavoro. O ancor meglio di un lavoro degno di essere chiamato tale. Il Vangelo dei nazareni, anch’esso apocrifo, ci dischiude  questa nuova prospettiva.

Nel Vangelo usato dai nazareni o dagli ebioniti[2] che da poco abbiamo tradotto in greco dall’ebraico ed è chiamato da molti l’autentico (Vangelo) di Matteo, di quest’uomo dalla mano rinsecchita sta scritto che era un muratore che chiese aiuto con parole di questo tipo: «Ero un muratore e cercavo di procurarmi da mangiare con le mie mani; supplico te, o Gesù, di restituirmi la salute, perché io non debba mendicare il cibo in modo disonorevole».[3]

        L’episodio narra di una guarigione avvenuta in giorno di sabato. Il sabato racchiude in sé anche il senso di un lavoro dotato di dignità e di scopo: «per sei giorni lavorerai e farai ogni tua opera…» (Es 20,9). Il sabato comanda di operare e non solo di riposare; è figura non solo del limite, ma anche della dignità del lavoro. Proprio questo è il senso di un risanamento avvenuto il settimo giorno. Quella guarigione  la vogliamo qui assumere come gesto riferito a poveri che danno diritto non solo di sopravvivere ma di vivere attraverso il loro lavoro. Se la nostra mano va aperta, la loro mano va risanata per essere riammessa nelle condizioni di operare.

       L’episodio evangelico dell’unzione di Gesù, specie in Giovanni (12,1-11), è collegato al detto di Gesù relativo alla sua futura assenza e alla sua prossima sepoltura. «Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”» (Gv 12,7-8).

       Queste ultime parole inducono a concludere che i poveri sono con noi in luogo di Gesù, sono i suoi “rappresentanti”. Gesù infatti afferma: non avete me ma avete loro. Nella sua prefazione a una raccolta di scritti di Oscar Romero (uscita presso l’editrice il Margine di Trento), Piergiorgio Cattani cita una frase dell’ex primate anglicano Rowan Williams: «Per Romero l’unità della Chiesa è vincolata all’unione con Gesù attraverso la solidarietà con i poveri. La missione del credente è essere dove Gesù è e, come Gesù, dare la voce ai sofferenti e ai diseredati». È certo così, ma forse sarebbe ancor più vero affermare: «essere dove Gesù è e nel contempo non è». «I poveri li avete sempre, ma non sempre avete me».

      Non abbiamo Gesù ogni volta che disprezziamo il povero. Tuttavia è anche vero che fa parte delle nostre povertà di credenti non avere pienamente Gesù con noi. Forse mai siamo tanto realmente con i poveri come nel momento in cui sappiamo di essere poveri perché ci manca la piena presenza di Gesù. Ciò implica attendere e sperare nell’incontro definitivo con lui.  I poveri sono là, dove  Gesù c’è e non c’è. Nel quarto Vangelo Gesù avrebbe detto nei suoi discorsi di addio: «Un poco non mi vedrete più, un poco ancora mi vedrete” (Gv 16,16). Quel “lunghissimo poco” è l’orizzonte della nostra attesa e delle nostre povertà di credenti.

       Giovanni, a differenza di Matteo e Marco (e come Luca, che lo pone però in un altro contesto, 7,36-49), parla di un’unzione diretta verso i «piedi» e non già rivolta al «capo». Si tratta di un atto già orientato in se stesso alla sepoltura. I piedi venivano unti solo ai defunti, mentre l’unzione del capo è riservata ai vivi. Il gesto di Maria è il segno della povertà propria della nostra umana esistenza. Il detto popolare chiama, con saggezza, i defunti “i poveri morti”. Gesù è il povero per eccellenza perché ha assunto fino infondo la nostra condizione mortale. Quando è stato deposto dalla croce è stato però misericordiosamente accolto dalle donne, da Giuseppe, da Nicodemo. È la scena del “compianto” che l’arte ha tante volte rappresentato e che la vita tante volte ha conosciuto e conosce. Passare attraverso la morte per giungere alla vita è la pasqua della nostra povertà che è sempre con noi.

Piero Stefani


[1]«Origene, Commento a Matteo 15,14», cit. in Ebrei credenti in Gesù. Le testimonianze degli autori antichi, a cura di C. Gianotto, Paoline 2012, pp 531-532).

[2] Dalla parola  ’evyón «povero».

[3] Girolamo, Commento a Matteo, 12,13 cit. in Ebrei credenti in Cristo p. 547.

 

557 – Predilezione per i poveri? (28.02.2016)ultima modifica: 2016-02-27T09:00:41+01:00da piero-stefani
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