552 – La testimonianza comune (24.01.2016)

Il pensiero della settimana n. 552

 La testimonianza comune[1]
 (1Gv 4,16b-21)

    La prima lettera di Giovanni  presenta due definizioni – ma è forse il termine giusto? – di Dio: Dio è luce e Dio è amore.  Per due volte si cerca di rispondere a una domanda mai formulata in modo esplicito. Se lo fosse non potrebbe infatti ottenere risposta.  Si tratta di un interrogativo che eccede la capacità di risposta. La domanda sarebbe quella di chiedersi «che cos’è Dio?». Il Salmo si interroga retoricamente: «che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?» (Sal 8,5). Neppure lì c’è una definizione; tanto più ciò vale per Dio.

    Nella  prima  lettera di Giovanni si afferma: «Questo è l’annuncio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è alcuna tenebra» (1Gv 1,5), Abbiamo udito, non visto, che Dio è luce. È la parola invisibile ma udibile che ci comunica che Dio è luce. La luce, più che esser vista, è la realtà che consente di vedere. La luce è un dono continuo posto al servizio degli altri. Essa si espande per far sì che gli oggetti, le cose, le persone, i volti divengano visibili per noi. La luce fa volgere lo sguardo su altro da sé. Nella visione c’è bisogno di alterità. Nessuno scorge i propri occhi. Per vedere se stessi gli occhi hanno bisogno dell’alterità dello specchio. Affermare che Dio è luce non significa che si possa vedere Dio. È luce proprio perché invisibile, ma è un invisibile che fa vedere non se stesso bensì gli altri. Perché ciò divenga pienezza di dono il Dio invisibile si è fatto però visibile nel Figlio suo inviato nel mondo.

    La prima lettera di Giovanni inizia con queste parole: «Quel che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3). Il Verbo si è reso visibile, ma il  suo annuncio  giunge a noi solo con la parola. Gli occhi che hanno veduto  ci annunciano colui che più non vediamo. Essi ci dicono: Dio è luce resasi visibile nel Figlio suo al fine di creare comunione (koinonia) tra i credenti. A testimoniare è dunque la nostra comunione. La testimonianza comune – sigla di questa giornata di preghiera per l’unità – è che la luce di Dio sia il dono fattosi visibile nel Figlio suo.  Nel suo versante negativo la prima lettera di Giovanni parla delle tenebre dell’odio (1Gv ,9). Ci sono, ma, in maniera più tenue, ci sono anche l’ombra pensante e la cupa penombra di una comunione puramente di facciata, superficiale, non viva che non è in  grado di testimoniare nulla.

    Anche l’amore, proprio come la luce, fa vedere. L’amore muta l’altro in prossimo. Quante volte fingiamo di non vedere l’altro, il quale perciò per noi rimarrà sempre e solo “altro”. Le tenebre quotidiane non sono un assoluto, non sono un buio totale che in qualche modo giustificherebbe il nostro non vedere. Le tenebre di tutti i giorni sono più simili a paraocchi: vediamo solo quello che vogliamo vedere ed evitiamo di scorgere quanto ci turba e quanto ci interpella. Ci sottraiamo dal guardarci reciprocamente. Troppo spesso davanti ai nostri occhi è calata una saracinesca.

   «Dio è amore (apapē)» (1Gv 4,8). È l’unica volta in tutta la Scrittura che lo si afferma in maniera così diretta. Cosa dice l’apostolo: «Amati (agapētoi, non è esatto tradurlo con “carissimi”), amiamoci l’un l’altro» (1Gv 3,23). Se non dicesse «amati» non potrebbe dichiarare: «amiamoci gli uni gli altri» (1Gv 3,23). Solo chi ama è nelle condizioni di comandare l’amore.  L’apapē che  viene da Dio, anzi che è Dio, ci sospinge ad amare. Ma siccome qui siamo nel seno della comunione (koinonia) non si prescrive solo «ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), si dice anche al prossimo di amare te: amiamoci gli uni gli altri. Dio è la luce che fa vedere, Dio è l’amore che fa amare. L’ apapē è un amore luminoso.

   Ecco un paragone: la persona mite è colei che ridesta in chi lo incontra la sua parte migliore; quando incontriamo un mite in noi viene alla luce la nostra componente più nobile, la violenza e l’ostilità sepolte in noi stessi si sciolgono; a maggior ragione ciò vale quando incontriamo Dio che è amore, l’amore che ci fa amare. Nessuno ha mai visto Dio: «chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,19). Ciò non significa altro che attuare quanto dice la lettera: cosa significa amare Dio? Significa «mettere in pratica i suoi comandamenti» (1Gv 4,21; 5,2-3). In Giovanni il comandamento nuovo è: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Gv 13,31). L’amore di Dio è l’amore che fa amare resosi visibile nel Figlio suo. Esso ci sospinge a vederci gli uni gli altri, ad amarci gli uni gli altri per essere in comunione gli uni con gli altri. La testimonianza comune non è che la comunione (koinonia) stessa.

 Piero Stefani

 


[1] Riflessione tenuta nella parrocchia di Mizzana (Ferara) il 21 gennaio 2016 nel corso della Settimana per l’unità dei cristiani

552 – La testimonianza comune (24.01.2016)ultima modifica: 2016-01-23T09:46:55+01:00da piero-stefani
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