525 – Fede, opere e omissioni (07.06.2015)

Il pensiero della settimana, n. 525

 Fede, opere e omissioni[1]

 In uno dei suoi ultimi interventi radiofonici, risalente agli inizi del 1996, Sergio Quinzio prese parte a una puntata del ciclo di «Uomini e profeti» (curato da Paolo Ricca) dedicato ai Dieci comandamenti. Gabriella Caramore gli chiese di riproporre la classificazione dei peccati già presente in Mysterium iniquitatis. In sintesi, la proposta di Sergio era di considerare le colpe omissive più gravi di quelle commissive. Inoltre la successione di pensieri, parole e opere andava intesa in senso decrescente. Ne consegue che la colpa più grave «è non pensare ciò che si deve pensare, cioè non avere pensieri di amore per Dio e per il prossimo, non desiderare la fine del male e non desiderare la resurrezione dei morti»[2] . Per quanto la si rovesci rispetto al senso più consueto, la classificazione proposta da Quinzio risente forse un po’ troppo di un’impostazione catechistica. Nell’orizzonte biblico è difficile distinguere in modo netto tra pensieri, parole e opere.

Nel Vangelo vi è una celebre parabola che pone in rilievo l’importanza determinante della componente omissiva. Lo fa dando talmente per presupposto il versante commissivo da situarlo fuori dal quadro. La parabola è quella del «Buon samaritano» (Lc 10, 29-37). In essa non si parla in modo diretto della colpa dei briganti che hanno rubato e ferito gravemente l’uomo. Vale a dire, essa riguarda direttamente il nostro non fare e non già il cattivo comportamento altrui.

Si narra che anni fa, ad un gruppo di seminaristi, fu proposto, come esercitazione omiletica, di occuparsi della parabola del «Buon samaritano». I giovani si impegnarono nel preparare bei commenti. Al ritorno furono, a loro insaputa, sottoposti a un test. Un attore si finse ferito giacendo a bordo strada. La maggior parte dei futuri preti tirò dritto[3] . In questo caso l’ironia sarebbe risposta superficiale. Per comprovarlo basterebbe guardarsi allo specchio. Il non sostare di fronte al bisogno altrui è tratto comune della nostra quotidianità. Di solito l’omissione la si vede negli altri e la si cela a se stessi.

L’episodio ci ammonisce che riflettere sul testo serve poco al fine dell’agire. A dirlo è, paradossalmente, la parabola stessa. Essa prende le mosse da una domanda connessa al precetto dell’amore per il prossimo (Lv 19,18). In luogo di delimitare l’area di riferimento rispetto a chi vada considerato prossimo (il connazionale? Anche lo straniero? Ogni persona, senza limitazioni di sorta?), la parabola termina con l’invito a farsi prossimo. Si tratta, perciò, non di definire una condizione, ma di instaurare una relazione. Ogni individuo può essere estraneo o prossimo in base al rapporto che si stabilisce con lui. Bisogna però anche notare che il samaritano non agisce per aver tenuto conto del comandamento. A indurlo a prestare soccorso è non il precetto biblico, ma il moto che dall’interno lo spinge fuori di lui. Sono le sue “viscere” non il precetto di Dio.

Piero Stefani

 [1] Anticipo la prima parte della sintesi dell’intervento svolto a Montebello (PU) il 21 marzo 2015, la versione più ampia uscirà fra non molto nella rivista Mediterraneo.
[2] Cfr. Paolo Ricca, Le dieci parole di Dio. Le Tavole della libertà e dell’amore, a cura di G. Caramore, Morcelliana 1998 (20142), pp. 101 – 103
[3] Cfr. T. Radcliffe,  «Non passare oltre» in  I libri de «Il Regno», Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, EDB, Bologna 2003, 137.

 

525 – Fede, opere e omissioni (07.06.2015)ultima modifica: 2015-06-06T10:17:58+02:00da piero-stefani
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