511_Angeli. Anunciano il Dio dei Monoteismi. Con o senza ali (01.03.2015)

Il pensiero della settimana, n. 511

 Angeli. Annunciano il Dio dei monoteismi. Con o senza piume[1]


 Il più grande artista che porta nel suo nome un riferimento agli angeli li raffigura, di solito, senz’ali. Nella Cappella Sistina sull’enorme parete del Giudizio universale sia quelli in alto che portano i segni della passione (croce, corona, colonna…), sia quelli in basso che soffiano nelle trombe per far risorgere i morti e mostrano ai resuscitati i libri su cui è scritto il loro destino eterno, sono tutti apteri («senza ali»). Gli angeli di Michelangelo sono umanizzati; tuttavia proprio questa somiglianza con noi nell’aspetto esteriore evidenzia una diversità ancora più grande: volar senz’ali è più irrealistico che farlo quando si è dotati dell’organo che caratterizza i volatili.
Ma quando sono spuntate le ali agli angeli? Se seguiamo passo dopo passo i libri della Bibbia, esse sembrano esserci fin dal principio. Si parla infatti di cherubini posti a guardia del giardino dell’Eden perché i progenitori scacciati non vi facciano ritorno (Genesi 3,24). Il loro nome richiama i karibu babilonesi, geni dalla forma metà umana e metà animale che vegliano alla porta dei templi e dei palazzi. Nell’iconografia orientale e nella descrizione biblica sono rappresentati come sfingi alate (cfr. Ezechiele 1).
Se, però, guardiamo alle storie patriarcali e a quelle di altre antiche figure bibliche troviamo angeli di tutt’altro aspetto. A essi è ben difficile tanto attribuire le ali quanto assegnare loro la capacità di volare. Al pari di noi, sembra piuttosto che camminino o si siedano. Basti pensare alla vicenda di Gedeone: vede l’angelo del Signore seduto ai piedi di un terebinto e conversa con lui a lungo senza alcun turbamento. Solo alla fine, dopo che, grazie all’intervento angelico, ha avuto luogo una miracolosa offerta sacrificale, Gedeone si meraviglia che, pur avendo visto faccia a faccia l’angelo del Signore, si ritrovi a essere ancora vivo. Viene rassicurato: quel luogo sarà all’insegna della pace (cfr. Giudici 6,11-24). Storie simili valgono per Agar (Genesi 16, 7-13), per Lot (Genesi 19,1-29), per i genitori di Sansone (Giudici 13) e così via.
Per ritrovare le ali dobbiamo spostarci a Gerusalemme nell’anno della morte di re Ozia (probabilmente 740 a.C.); il profeta Isaia ebbe all’interno del tempio una visione del Signore seduto su un trono alto ed elevato; sopra di lui stavano dei serafini ognuno dei quali aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due i piedi (eufemismo per «genitali»), con due volava. Mentre si trovavano in quello stato si scambiavano tra loro parole recitate fino a oggi anche da esseri privi di ali: «Santo, santo, santo il Signore…» (Isaia 6,1-3). Lungi dall’essere apteri, i serafini sono contraddistinti da una altrettanto irrealistica sovrabbondanza di ali.
L’etimo della parola ebraica serafim suggerisce una traduzione tipo «i brucianti», con ogni probabilità il loro nome deriva dall’immagine del fuoco spesso associata alla presenza divina. In effetti nella visione profetica ci è detto che uno dei serafini prese un carbone ardente dall’altare del tempio e con esso purificò le labbra di Isaia che in quel momento fu costituito profeta. Quasi duemila anni dopo un altro serafino, questa volta compenetrato al crocifisso, avrebbe impresso nel «crudo sasso» de La Verna le stigmate di Gesù Cristo in Francesco di Assisi. Siamo di fronte a due diverse storie di vocazione, per Isaia è un inizio, per Francesco un suggello.
I serafini della corte celeste lodano il Signore della cui gloria sono pieni cielo e terra. Angeli presenze di Dio tra cielo e terra è il titolo di uno dei «libri di Biblia» (Morcelliana, Brescia 2012) che raccoglie “alati” contributi di angelologia dall’antichità ai giorni nostri. Ci è prospettata una specie di definizione che allude a un compito proprio degli angeli: essere non solo in cielo alla presenza di Dio, ma anche in terra per rendere presente Dio nella vita degli esseri umani. Fu così nel caso di Gedeone e di molti altri personaggi biblici fino a giungere a Maria (Luca 1,26-38). A indicarlo è anche l’etimo che nella varie lingue riconduce gli angeli sempre, in un modo o in un altro, alla loro funzione di messaggeri. L’annunciatore è colui che rende presente chi si trova altrove. L’angelo lo fa in relazione a Dio e non già rispetto a qualche autorità terrena. Così è per l’ebraico mala’k e per l’equivalente arabo, anch’esso mala’k; così è per il greco ànghelos (che si trova alla spalle del latino e di tante altre lingue) che significa «annunciatore». Nella Bibbia e nel Corano (che fu fatto scendere sul profeta Muhammad non a caso attraverso Gabriele), gli angeli sono quindi anche e forse soprattutto presenze di Dio operanti e annuncianti sulla terra. Si legge nel libro sacro dell’islam: «sia lode a Dio creatore del cielo e della terra che sceglie come messaggeri gli angeli, con le ali – due, tre, quattro – e che aggiunge al creato ciò che Egli vuole perché Dio è potente su ogni cosa» (Corano, 35,1).
Angeli lodatori del Signore in cielo e messaggeri di Dio in terra; è solo così? No. Antica infatti è anche un’altra idea, quella della caduta degli angeli. Essa rappresenta una esemplificazione della massima: dall’ottimo il pessimo. È un detto carico di riscontri pure nella esistenza umana tanto personale quanto collettiva. Più si è in alto più la caduta porta in basso. In questo precipizio non cadde solo il leggendario Lucifero (cfr. Isaia 14,12; Luca 10,18). Tra i vari miti di caduta uno dei più istruttivi lo si trova nel Corano. Riguarda Iblis. Allah ha appena creato Adamo. Iddio ordina a tutti gli angeli di prostrarsi di fronte a questa sua nuova creatura. Tutti obbedirono tranne Iblis. L’angelo motivò il proprio rifiuto. Replicò infatti ad Allah dicendo che lui, essere di fuoco, non poteva inchinarsi di fronte a chi gli era inferiore, un essere fatto di argilla. Allah allora lo scacciò dicendo: «Via di qui, non ti è concesso di essere superbo» (cfr. Corano. 7,11-18).
Iblis perde la propria più alta natura angelica a motivo di un ragionamento: le realtà create sono dotate di una consistenza oggettiva, ce ne sono di superiori e ce ne sono di inferiori. Le leggi vanno rispettate. Nella caduta di Iblis è contenuta una chiave ermeneutica per comprendere tutta la storia degli angeli alati o apteri che siano: il razionalismo li distrugge e li precipita nel baratro del non senso; a salvarli è solo il riconoscimento del ruolo insostituibile affidato al simbolo all’interno della conoscenza umana.
Piero Stefani
[1] “La Lettura”, Corriere della Sera, 22.2.2015, p. 11

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