506- Un universalismo ebraico? (25.01.2015)

Un recente articolo del rabbino Giuseppe Laras apparso sul Corriere della sera° esemplifica in maniera assai netta cosa significa proporre un richiamo spurio alla «radice biblica». Si tratta in questo caso di una posizione volta a mettere in luce sia le radicali differenze che esistono tra Bibbia e Corano sia a rivendicare un primato biblico anche rispetto al mondo greco. Scrive Luras: «I diritti, per come li comprendiamo noi, devono essere valevoli sempre e per tutti, ed è proprio questo che li rende, in una certa misura, universali. Ebbene, in Grecia era “uguale”, e quindi investito di diritti, solo chi era maschio, libero, greco, adulto e non necessitato a lavorare per vivere, cosa altrimenti disdicevole. È la Bibbia ebraica, la Torah, a rivoluzionare tutto ciò. È la Bibbia ebraica a introdurre nella civiltà umana la libertà quale DNA costitutivo dell’uomo e del creato, speculare alla libertà del Creatore (libertà e non sottomissione!). È la Bibbia ebraica a sostenere che il lavoro umano rende l’essere umano simile a Dio nel creare. È la Bibbia ebraica, a porre, con la straordinaria rivoluzione introdotta dallo Shabbat, un limite al lavoro, altrimenti deleterio, rendendo l’uomo simile a Dio anche nel riposare. È con lo Shabbat che vengono inventati i “diritti umani universali”, includendo uomini, donne, stranieri, schiavi e perfino animali. È con lo Shabbat e con i precetti biblici di aiuto ai poveri e di costruttiva solidarietà con i derelitti della società che trova fondamento la nostra idea di “welfare” e non da altre culture».

Il riferimento alla libertà contro la sottomissione comporta, in base all’etimologia corrente, una chiara allusione polemica nei confronti dell’islam. Secondo Laras la Bibbia perciò fonderebbe in se stessa diritti universali. Ciò appare evidentemente inverosimile tenendo conto della strutturale distinzione che la Bibbia ebraica pone tra Israele e genti. Il sabato è sigillo di un’alleanza perenne ma particolare (cfr. Es 31, 12-17) che vincola solo gli ebrei e non già i gentili. Il riferimento a donne, stranieri , schiavi e al bestiame (cfr. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) si giustifica in quanto tutti sono coinvolti nell’opera esercitata dall’ebreo libero e adulto. Nel patto (non alleanza berit, ma ’amanah ben reso dal latino foedus) descritto nel capitolo decimo di Neemia (passo di grande rilevanza per comprendere l’ebraismo post esilico), il sabato è coerentemente presentato come peculiare a coloro che «si erano separati dai popoli» e accompagnato da altre decisioni, ivi compresa quella di espellere dalla Giudea le spose straniere e i figli di matrimoni misti (cfr. Esd 9-10).

Che nel contesto della società contemporanea l’osservanza ebraica sabbatica possa essere simbolo di valori universali legati all’acquisizione del senso limite nei confronti del lavoro e del rispetto dell’uomo e della natura è tutt’altra cosa dall’ affermare la presenza di un diretto fondamento universale dei diritti umani all’interno della Bibbia ebraica. L’attuale allusione all’universalità comporta l’elaborazione di un’ermeneutica capace, senza rinnegare in toto il passato, di ricavare sensi nuovi da quanto un tempo aveva un significato diverso. Se non si fa propria questa maniera di procedere l’esito è inevitabilmente quello di assumere il popolo d’Israele come il riferimento privilegiato per valutare il rispetto generale dei diritti umani. L’ebreo in quanto tale diventa simbolo dell’umano. L’antisemitismo diviene dunque la quintessenza della violazione dei diritti umani. Ma c’è di più: ogni critica o distinguo mosso nei confronti dello Stato d’Israele è inteso, quanto meno, come la porta d’ingresso verso l’assunzione di atteggiamenti antisemiti°° . Il prezzo di tutto ciò sta nel rifiuto di cogliere il dramma, simbolico e reale a un tempo, legato all’ossimoro istituzionale di Israele allorché si definisce Stato ebraico e democratico. La contraddizione si scioglierebbe solo nel caso in cui l’ebraicità fosse intesa in se stessa come prima radice della democrazia; ma ciò evidentemente non si dà. Lo impedisce l’irriducibile bisogno di porre una distinzione tra ebrei e non ebrei. Componente non a caso dotata di precise ricadute sia pratiche sia istituzionali all’interno dello Stato di Israele. È infatti esigenza imprescindibile di quello Stato stabilire, per legge, chi è e chi non è ebreo.

Piero Stefani

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° In forma ridotta nell’edizione cartacea del 15 gennaio 2013, in forma completa sul sito del giornale.
°° Rispetto al campo più specifico del dialogo ebraico-cristiano una posizione assai simile la si trova in E. Korn, Ripensare il Cristianesimo e prospettive possibili, EDB, Bologna 2014

 

 

 

 

506- Un universalismo ebraico? (25.01.2015)ultima modifica: 2015-01-24T09:35:55+01:00da piero-stefani
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