451__Islam tra tolleranza antica e intolleranza contemporanea (10.11.2013)

 

Il pensiero della settimana, n. 451 

 

   Un antico dotto musulmano, al-Qayrawani (922-966), in relazione alla blasfemia scrisse: «Chi insulta l’Inviato di Dio [Muhammad] è ucciso. Chi tra i dhimmi insulta il Profeta o Dio, in modo diverso da quello che la sua miscredenza di per sé implica, è ucciso salvo che si converta all’islam». Che si sia in un contesto premoderno è scontato. Sulla base del senso attuale del diritto la prescrizione appare inaccettabile. Eppure val ugualmente la pena rifletterci.

   Con «dhimmi» si intendono gli appartenenti alla «Gente del Libro» (innanzitutto ebrei e cristiani di varie confessioni) che vivevano nelle società musulmane. Essi erano «protetti» (questo l’etimo) e nel contempo non posti sul piano di parità con i fedeli dell’islam. Dovevano pagare un’apposita tassa (gyzia) e riconoscere le autorità musulmane, ma nello stesso tempo godevano di una relativa autonomia rispetto al diritto interno al proprio gruppo.

   Cosa si ricava dalla posizione di al-Qayrawani? Un principio di tolleranza relativo all’errore altrui. In temini contemporanei la sua sarebbe una posizione assolutistica e quindi inaccettabile. Altro il discorso in prospettiva pre-moderna. L’esemplificazione di questo principio è semplice. Se un musulmano affermasse che Dio è uno e trino sarebbe reo di blasfemia (sabb) e quindi meriterebbe la morte; mentre se lo sostiene un dhimmi cristiano su di lui non ricade alcuna conseguenza. Per lui si tratta di un errore intrinseco alla sua fede. Se invece dichiarasse che Muhamamd è un mentitore, lussurioso o assassino meriterebbe la morte a meno di non pentirsi e convertirsi  all’islam.

   Siamo di frontre ad una applicazione giuridica conforme al principio presente nella Sura della Mensa (Corano 5, 46-48). I punti di riferimento sono in sostanza due, entrambi giustificati in base all’azione di Dio. Il primo è che Allah avrebbe potuto fare di tutta l’umanità un’unica comunità religiosa, ma così non ha voluto (Corano 5, 48); per questa via si legittima l’esistenza di una qualche pluralità religiosa.  Il secondo è che, alla fine dei tempi, Dio spiegherà la ragione per cui le religioni sono attualmente in  reciproco dissenso (Corano  5,48 ). Si sa perciò bene  dove sta la verità; tuttavia la comunità religiosa che è nella verità (l’umma musulmana) non può essere più zelante di Dio; anch’essa, pur essendo certa della propria fede, deve perciò tollerare l’errore altrui. Anzi è proprio il suo essere nella verità a imporle l’accettazione di una qualche forma di pluralismo religioso.

   La legislazione attuale di vari paesi che sono stati colonie o mandati britannici risente tuttora, in materia di blasfemia, dell’impostazione anglosassone. I codici prescrivono in pratica le stesse norme in India, in Pakistan o in Israele. Essi tralasciano ogni fondamento teologico e si concentrano sul rispetto reciproco tra i membri delle varie comunità religiose. Perciò si vieta la profanazione di luoghi di culto altrui, il dileggio delle convinzioni religiose degli altri e così via. Qui è introdotto un principio paritario. Tuttavia è proprio a partire da quest’ultimo che, là dove si sono introdotti processi di radicale islamizzazione legislativa (come è avvenuto in Pakistan), si va incontro a esiti abnormi sia sul piano dei principi sia su quello della prassi.

   Un esempio è dato dall’attuale codice pakistano. Nel capitolo XV dedicato alle offese relative alla religione si introducono norme che, senza abolire le precedenti, le inaspriscono in maniera radicale. Si legge per esempio che chiunque danneggia o dissacra una copia del Santo Corano o di un suo estratto o lo usa in qualsiasi maniera spregiativa o con qualche scopo illegale sarà punito con l’ergastolo. Se poi offende per iscritto a voce o per immagini (le famigerate vignette) il Profeta può essere punito persino con la morte. Sarà punito invece con la prigione se offende le mogli del Profeta, i suoi parenti, i primi califfi.

   Il salto qualitativo si ha attorno a quel «chiunque». Ora non c’è differenza tra essere musulmani o appartenere invece ad altre religioni. Inoltre la valutazione dei comportamenti giudicati blasfemi è soggetta a elevati margini interpretativi; ciò fa si che la componente non musulmana, come prova drammaticamente la cronaca, sia soggetta a violenti soprusi.

   Nell’età della globalizzazione è arduo governare il rimescolamento delle civiltà e delle culture. Tuttavia le aberrazioni nate da questo sfondo comune differiscono radicalmente da contesto a contesto. In Pakistan la deriva va nella direzione ora indicata.

 

Piero Stefani

 

451__Islam tra tolleranza antica e intolleranza contemporanea (10.11.2013)ultima modifica: 2013-11-09T09:08:00+01:00da piero-stefani
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