442__Francesco e la Siria (08.09.2013)

Pensiero n. 442

Francesco e la Siria

 

Papa Francesco scrive a Vladimir  Putin nella sua qualità di presidente del G 20 una lettera in stile diplomatico. In essa si chiede un riequilibrio delle finanze mondiali a vantaggio di tutta l’umanità e si auspica la pace in Siria. L’ultima riga muta però registro e assume un tono personale. Vi si legge testualmente: «Nel chiederLe di pregare per me, profitto dell’opportunità per esprimere, Signor Presidente, i miei più alti sentimenti di stima». La richiesta di preghiera a suo favore, è fin dalla prime, memorabili battute pronunciate dalla loggia di S. Pietro, uno dei tratti caratterizzanti di Francesco. Un conto però è domandarla come vescovo di Roma al suo popolo, tutt’altro chiederla a un potente che ha sempre usato in modo spregiudicato il potere  presentandola addirittura come occasione per esprimergli una ingiustificata stima.

Papa Bergoglio non è un politico. Quando si muove in questo campo, e la sua presa di posizione sulla Siria è stato il primo caso davvero degno di nota, mostra grandi limiti. Rivolgere quelle parole a Putin, il maggiore sostenitore del sanguinario dittatore Assad  (uomo capace – non meno di suo padre – di massacrare il proprio popolo) costituisce, de facto, una scelta di campo. Questa non era certo l’intenzione di Francesco, ma i fatti hanno una loro logica. Le stesse considerazioni possono dirsi per la decisione di prendere la parola e di indire una giornata di digiuno e di preghiera solo quando è diventata concreta  la minaccia di un intervento armato americano.

In Siria la guerra c’è da anni, le vittime si contano già a molte decine di migliaia, i profughi ammontano a molte centinaia di migliaia. Solo ora però si invita con forza alla trattativa e all’accordo tra le parti. Ma quali sono? Da un lato c’è un potere statale antidemocratico, dall’altro vi sono il cosiddetto esercito libero siriano e una pletora di gruppi jaidisti, spesso in conflitto reciproco, nelle cui fila si trovano mercenari o volontari venuti da ogni dove.

La minaccia dell’intervento statunitense e francese ha ricollocato il quadro in un contesto che evoca il vecchio schema di guerra tra stati. Ciò ha finalmente consentito di individuare una linea di risposta. Che l’intervento armato non sia la soluzione va da sé. La Libia è lì a dimostrarlo (di passaggio, attualmente l’Italia è garantita nei suoi rifornimenti petroliferi solo perché i pozzi sono difesi da mercenari). Forse con il tempo dovremo concludere che la Somalia andrà considerata l’archetipo di una serie sempre più numerosa di paesi collocati al di fuori della classica dimensione statuale. Tuttavia, a parti rovesciate, le valutazioni valgono anche per la pace. Non basta dire che gli americani hanno torto per affermare che la ragione sta dalla parte dei pacifisti che trovano nell’anti-americanismo il perno su cui far ruotare la loro visione del mondo. È ovvio che papa Francesco non può essere appiattito su questa posizione (verso la quale, stando a un’intervista da lui rilasciata, sembra invece inclinare un po’ di più il Preposto Generale della Compagnia di Gesù p. Nicolas). Tuttavia neppure Bergoglio sembra aver chiara la percezione che il mondo non è più quello della guerra in Vietnam e non è più neppure quello della Pacem in terris (evocata da Francesco), enciclica legata al sistema di due superpotenze contrapposte. Le chiavi interpretative di allora non servono più. Oggi se è netto lo scacco della guerra, non meno bruciante è lo scacco della pace, specie nel caso in cui quest’ultima sia declinata nella prospettiva degli accordi diplomatici.

Digiunare e pregare per la pace? Per quale pace? Per quella messianica che non è diplomatica. Per confessare le propria indifferenza per anni di stragi commesse in un silenzio quasi generale. Perché Dio abbia misericordia dei morti restituendo, in un modo che solo lui può fare, la vita ai bimbi privati della loro esistenza terrena. Questi atti sono specifici  delle religioni ed è solo a loro che è dato di farlo. Si può pregare anche perché gli uomini di guerra si pentano. Ma conviene digiunare e pregare perché un dittatore massacratore di parte del suo popolo si accordi con gruppi la cui ideologia di fondo sta nel sacrificare vite umane in nome di una causa ritenuta assoluta?

Nell’Angelus di domenica 1 settembre Francesco cita esplicitamente Giovanni XXIII; tuttavia indirettamente sembra evocare anche Giovanni Paolo II. Lo si comprende là dove afferma: «c’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». La cultura ancora impregnata di romanticismo polacco di Wojtyla evocava spesso Dio e storia come se andassero a braccetto; non ce lo possiamo più consentire. Il giudizio secolarizzato della storia afferma che «guerra chiama guerra», lo fa perché questa è la sua legge e non perché ciò si trasformi in condanna. Nella storia, così come l’abbiamo conosciuta finora,  ci sono due regole: la prima è il dominio dei potenti e l’umiliazione dei poveri;  la seconda è che i potenti siano buttati giù da altri potenti. Il resto è eccezione; decisa e irrinunciabile appunto perché eccezione. Peraltro una delle ragioni della paralisi dell’intervento internazionale sembra individuarsi nel fatto che, sull’onda di quella che con colpevole (anzi tragica) superficialità fu etichettata «primavera araba», si pensava che Assad sarebbe caduto. Si aspettava la rovina del potente di turno.

Ben diverso fu il tono assunto da Francesco d’Assisi nella sua lettera ai «Reggitori dei popoli». Lì si parlava di giudizio di Dio e non di quello della storia.  Da un punto di vista della ricerca storico-culturale, varrebbe la pena di pensare al fatto che in quello scritto Francesco fu influenzato, quasi certamente, dal ricordo della voce che dall’alto richiama alla preghiera da lui udita in Oriente. Forse fu proprio quella esperienza a indurlo a pensare ai governanti cristiani come se fossero piccoli califfi protettori della fede. Rimane comunque indubitabile il fatto che, nei loro confronti, egli evoca il giudizio di Dio non quello della storia: «E siete tenuti ad attribuire al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato che ogni sera si annunci, mediante un banditore o qualche altro segno, che siano rese lodi e grazie all’onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo. E se non farete questo, sappiate che dovrete renderne ragione a Dio davanti al Signore vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio».

Piero Stefani

442__Francesco e la Siria (08.09.2013)ultima modifica: 2013-09-07T08:15:44+02:00da piero-stefani
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2 pensieri su “442__Francesco e la Siria (08.09.2013)

  1. Caro Piero,se l’episodio si riferisse a uno qualunque dei papi precedenti potrei essere d’accordo; ma questo è un Papa fresco di 3 mesi e mezzo che peraltro ha già parlato contro la guerra. Quanto alla chiusa della lettera a Putin potrebbe essere una sottolineatura del suo desiderio di porsi di fronte all’uomo Putin, indipendentemente dalla sua storia: si giudicano i fatti, non gli uomini.
    Mi complimento per il tuo impegno costante e per la chiarezza dei tuoi interventi. Un abbraccio. Piero Canevini

  2. Mah… E’ duro da digerire per chiunque ami il buon senso, ma nei secoli è stato proprio il “realismo” politico a spiritualizzare la Buona notizia, fino a trasformare essa stessa in maneggio mondano. Se Papa Francesco non spera l’impossibile, non spera di toccare la coscienza dell’uomo Putin, se dispera in anticipo – nel nome della necessità di stare coi piedi per terra – che in lui possa farsi strada una germoglio nuovo, allora la Speranza cessa di essere tale, smette di credere oltre ogni umana evidenza. Con esiti a catena che conosciamo benissimo. E poi, se non lo fa lui, chi?

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