441__L’oliva, le ciliegie e il cuscino di fiori (10.07.2013)

 

Il pensiero della settimana n. 441 [i]

 

     Margherita amava la sua terra, ma sapeva bene che la Sicilia era stata benedetta più da Dio (o dagli dèi) che dagli uomini. Per capirlo basta avere occhi e guardarsi un po’ in giro. In ogni angolo si vede qualche opera pubblica lasciata a mezzo e consegnata al degrado. Le speculazioni edilizie private erano invece state portate a compimento. Lo comprova la cementificazione di coste e crinali. La sensazione si rafforza se si hanno orecchi. Da un lato con essi si percepisce la risacca del mare e lo stormire delle fronde; dall’altro, si colgono le mute grida del sangue versato e il sussurro maligno racchiuso dietro le persiane.

     Anche se la Sicilia è identificata, sia nella realtà sia nell’immaginario, più con gli agrumi che con gli ulivi, questi ultimi non mancano. Nell’isola esistono da sempre, pure se, a differenza dei carrubi o dei fichi d’India, non hanno ancora trovato un loro Guttuso. Ce ne sono di antichi. L’animo di Margherita la portava più volte a mettere in conto i lati oscuri di quanto la vita può riservare, forse per questo era attratta da quelle piante, simboli ben riconoscibili di una contorta, sofferente vecchiaia. Di persona lei era lungi dall’essere arrivata a quella età; la vedeva comunque ben presente attorno a sé, in grado, oltre che di incurvare ossa, anche di intaccare le capacità intellettuali delle persone. Era ancora una ragazza malinconica quando, in un suo quaderno, aveva scritto una specie di poesia dedicata agli ulivi. Il testo era perduto da gran tempo e Margherita, crescendo, aveva considerato ingenui quei versi. Ricordava solo gli ultimi due:  «ora  comprendo perché alla tua ombra  / per noi sudasti sangue».  A quel tempo la figura di Gesù albergava nel suo cuore.

     Un giorno di autunno si trovò a camminare in mezzo agli ulivi. Lei, in genere  riflessiva, fu preda di un piccolo, irrefrenabile impulso che la spinse a cogliere e mettere in bocca un’oliva acerba. Fu invasa dall’amarezza. Bisogna pensare non all’amaro del caffè, ma a una forza attorcigliante che invade tutto, inizia dal palato ma poi è come se penetrasse in ogni fibra del corpo. Basta mettere in bocca una piccola oliva acerba per avere una sensazione globale e traumatica. È un amaro amaricante. Solo allora, mentre cercava affannosamente un po’ d’acqua per sciacquarsi la bocca, capì. Era emerso un pensiero latente. Da un libro di un autore a lei molto caro aveva appreso una leggenda rabbinica. Il racconto forniva una specie di mappa degli abitanti dei sette cieli. I beati erano disposti in ordine gerarchico. Margherita era rimasta impressionata dal fatto che, al di sopra dello stesso messia, si trovassero coloro  che avevano avuto la vita amara come un’oliva acerba. Il pensiero che la sventura fosse in se stessa agli occhi di Dio un motivo sufficiente per essere salvi la commosse.

     Da allora, negli strati profondi della sua psiche, quel passo aveva continuato a operare, fino a indurla ad allungare la mano e aprire la bocca. Il ricordo non fu tale da trasformare l’amarezza  in dolcezza; fu però in grado di  farla riandare al verso di un salmo che conosceva nella sua bella formulazione latina: «in pace  amaritudo mea amarissima». Quelle parole le sembrarono la cifra dell’unica forma di pace che può toccare in sorte ai pensosi. Si lasciò quindi invadere da quella sensazione che nulla aveva da spartire con l’esuberanza. Il momento, contraddistinto dall’ormai precoce allungarsi delle ombre della sera, le parve capace di svelarle un senso irrinunciabile del vivere.

     Passarono vari anni. Anche la stagione era diversa. Si era sulla soglia dell’estate, il tempo in cui le fioriture della primavera si ritirano davanti al gagliardo avanzare dell’incipiente arsura. Stava sulla terrazza e di fronte a sé si estendeva un mare blu cobalto, lievemente increspato dal vento e sottoposto alle robuste carezze del sole. Sulla tavola campeggiava, trionfante, un  piatto di ciliegie mature. Plinio il vecchio parlò del gelso come di pianta sapientissima, in quanto è l’ultima a far spuntare le infiorescenze e la prima a far maturare le sue more. In tal modo, essa si pone al riparo tanto dagli improvvisi ritorni del freddo quanto dall’irrompere dell’arsura o da repentine grandinate estive. Margherita, come molte persone colte della sua terra,  amava i classici; conosceva, perciò, quella valutazione che, per suo conto, estendeva alle ciliegie. Anche in questo caso l’albero non è tra i primi a fiorire, mentre i suoi frutti maturano in anticipo rispetto alle albicocche, alle pesche, alle susine, per non parlare delle mele e delle pere. Già nelle settimane di passaggio tra la primavera e l’estate, le ciliegie anticipano dolcezze che altri frutti raggiungeranno solo dopo essere stati a lungo esposti al dardeggiare del sole. A Margherita era possibile avere un rapporto speciale con quei piccoli globi rosso scuro perché dietro casa si ergeva un  rigoglioso ciliegio. Per lei quei frutti non erano quelli insapori e costosi acquistati in negozio; al contrario, essi erano ancora dotati di un gusto tale da confermare il proverbio stando al quale una ciliegia tira l’altra.

     Margherita respirò l’aria salsa, udì la tranquilla risacca, guardò lontano verso il blu scintillante del mare e cominciò a essere pervasa dalla dolcezza suscitata in lei dalle  ciliegie giunte a piena maturazione. I noccioli sul tavolo formavano ormai un piccola corona e le sue dita tendevano ad assumere qualche sfumatura violacea. Le venne in mente un altro detto rabbinico: nel tempo avvenire a ogni uomo sarà chiesto conto dei piaceri leciti che si è rifiutato di godere nella vita. Non si trattava soltanto della gola. Tutti i sensi erano chiamati a raccolta: la vista, l’udito, l’odorato, il gusto; il solo tatto aveva poca voce in capitolo. Margherita vedeva, udiva, annusava e gustava una pace serena.

     Nell’Apocalisse si parla di un libro ingoiato dal veggente, dolce come miele alla bocca, ma  poi tale da riempire di amarezza le viscere. Avvenne così anche per le ciliegie. La dolcezza si trasformò in inquietudine amara. Perché avvenisse il mutamento, bastò un solo pensiero. Guardò la divina, indifferente bellezza di quel mare e l’immaginazione le fece vedere la superficie dal di sotto. Le migliaia di annegati racchiusi in quella tomba acquatica riebbero gli occhi, ma per loro tutto era buio e salso. Sono bimbi, donne e uomini che non avranno mai più in sorte di gustare una ciliegia, frutto che, con ogni probabilità, non avevano mai gustato neppure nel corso della loro esistenza terrena. Nella vita di chi pensa, il dolce si muta spesso in amaro. Avvenne anche quel giorno.

     Davanti  alle sventure del mondo il nostro oblio quotidiano ci fa sopravvivere e, nel contempo, avvilisce il senso profondo del nostro vivere.

     Trascorsero un altro paio di anni e Margherita, che per lavoro si era dovuta recare in una, per lei soffocante, valle dell’Italia settentrionale, si trovò di nuovo sulla terrazza. L’estate era ancora nella sua fase ascendente. Tutto era simile ad allora. Si ricordò delle ciliegie divenute inattese amarene spirituali. Guardò il mare nella sua sfolgorante indifferenza. Lo sguardo della sua mente si spinse, però,  più a sud, verso una piccola isola che costituisce l’ambiguo avamposto di un’Europa accogliente e respingente e l’incerta meta di chi arricchisce con la propria povertà il più iniquo dei traffici. Negli ultimi due anni non era cambiato molto, il Mediterraneo aveva continuato a inghiottire poveri. Da qualche giorno si è però nelle condizioni di conservare nel cuore un altro elemento vegetale: un cuscino di fiori bianchi e gialli. Le acque di Lampedusa l’avranno ormai consumato. «Ma nella loro estinzione – pesò Margherita – i fiori pontifici sono diventati ancor più simili a quanto volevano simboleggiare. Solo Dio è in grado di ridare vita a quella immensa moltitudine di  affogati; le parole e i gesti di Francesco non sono capaci di tanto». Le tornò in mente un versetto dell’Apocalisse: «il mare restituì i suoi morti» accompagnato dal frammento poetico di T.S. Eliot contraddistinto da un titolo duramente attuale: La morte per acqua:

 

Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni,

Dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare

E il guadagno e la perdita.

Una corrente sottomarina

Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava

Traversò gli stadi profondi della maturità e della gioventù

Entrando nei gorghi

Gentile o Giudeo

O tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del venti

Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto come te.

 

     «La terra è desolata, ma il mare non le è da meno» disse tra sé Margherita «Il tentativo del vescovo di Roma venuto dalla periferia del mondo di contrastare la globalizzazione dell’indifferenza resta però motivo di conforto. L’animo di chi si rifiuta di tirar giù la saracinesca posta davanti alla porta della com-passione si sente ora meno solo. Che Dio lo benedica e lo conservi. Quanto ai politici che si fregiano di avere un alto senso della Realpolitik  non sono meritevoli neppure del nostro sdegno: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Anche l’indifferenza ha il suo contrappasso».

Piero Stefani

 

 




[i] Riscrittura aggiornata del pensiero n. 346 del 25-06-2011
 
 

 

 

 
 
441__L’oliva, le ciliegie e il cuscino di fiori (10.07.2013)ultima modifica: 2013-07-13T07:56:00+02:00da piero-stefani
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