440__Francesco, Benedetto e Gesù (07.07.2013)

Il pensiero della settimana, n. 440

  

     Tra le novità di papa Francesco c’è anche quella di pubblicare un’enciclica non sua.

     A circa cento giorni dall’inizio del pontificato in un giorno impegnativo – porta la data del 29 giugno festa di S. Pietro e Paolo – esce Lumen fidei, un testo che ricalca, parola per parola, il pensiero dell’ultimo Ratzinger. Del resto Bergoglio dichiara, apertis verbis, la paternità del testo a cui si è limitato ad aggiungere alcune chiose (quali siano non è facile cogliere, certo sono di portata minore).

     La data della effettiva pubblicazione, 5 luglio, ha coinciso con la dichiarazione che entro l’anno altri due predecessori di Francesco saranno canonizzati: Giovanni XXII (su questo fronte c’è stato un intervento attivo di Bergoglio per la dispensa del secondo miracolo) e Giovanni Paolo II. Circondato dal papa emerito e da quelli canonizzati, in questi giorni il figlio di immigrati Bergoglio indirizza, de facto, l’interesse generale verso l’8 luglio quando, uscendo per la prima volta dai confini della sua diocesi, andrà a Lampedusa, ambiguo avamposto di un’Europa accogliente e respingente e incerta meta di chi arricchisce con la propria povertà il più iniquo dei traffici. Lì sentiremo Francesco parlare la sua lingua. Perché abbia voluto sottoscrivere anche quella del suo predecessore forse lo si capirà solo con il tempo. Per ora possiamo solo registrarlo non senza un qualche senso di depressione: rattrista il cuore leggere un’enciclica sulla fede a cui in pratica nessuno spazio è dato all’umanità e al credere di Gesù.

     Gesù ebbe fede? Che l’avesse è negato in modo esplicito da Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae (III, q. 7, a.3). Il ragionamento da lui proposto consiste nel fatto che l’ambito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dal proprio oggetto, perciò una volta tolta la non evidenza delle realtà divina viene meno, ipso facto, la fede; ma Cristo, fin dall’istante del suo primo concepimento, «ebbe piena visione dell’essenza di Dio», perciò in lui non avrebbe potuto esservi fede. Sia pure riferendosi a un ambito diverso da quello della «visio beatifica», anche la Lumen fidei sostiene di conformarsi al modo di vedere di Gesù e non alla sua maniera di credere (cfr n. 18).

Rispetto alla formula del concilio di Calcedonia che presenta Gesù Cristo come vero Dio e vero uomo, la classica riflessione teologica relativa alla fede di Gesù – o meglio alla sua mancanza –  fa prevalere il primo termine. Al riguardo, l’enciclica non pare fare eccezione: in essa non si fa alcun riferimento a Gesù presentato come «colui che crede».  

     Tuttavia, nel primo secolo, alcune comunità cristiane hanno scelto, non senza audacia, di rendere il genere biografico «vangelo» via privilegiata per confermare e far maturare la propria fede. Da allora la vita umana del Signore Gesù è parte costitutiva del credere. In essa non può non aver spazio anche la fede tanto di Gesù quanto di chi si incontrò con lui. Né a smentire ciò basta il fatto che nei Vangeli il verbo credere non ha mai come soggetto esplicito la persona di Gesù.

Nei Vangeli vi è un espressione che ricorre più di una volta: «la tua fede ti ha salvato»(cfr. per es. Mc 5,34; 10,52; Mt 15,28). La salvezza qui non si riferisce alla  vita eterna, né siamo di fronte ad alcuna esplicita fede in Gesù Cristo. Si tratta di un detto di Gesù rivolto a colui che ha conquistato la propria guarigione. È una fede di cui non si specifica l’oggetto; non si tratta di credere in qualcosa, al  più è un affidarsi a qualcuno. Siamo di certo più prossimi a un atto di fiducia, a un fidarsi proprio  nell’accezione biblica dell’ebraico ’emunah («fede», la stessa radice di amen; cfr. Lumen fidei, n. 10); ma non è neppure solo così. Se le cose stessero unicamente in questo modo, Gesù avrebbe detto parole del tipo: la tua fede ha meritato che io ti guarissi. La frase va in altra direzione; infatti sembra piuttosto imparentarsi con la dinamica in base alla quale il medico non può curare nel caso in cui il paziente non manifesti concretamente la propria volontà di guarire. Ciò vale anche per  l’incontro con Gesù.

     Nel Vangelo di Marco vi è un episodio in cui un padre supplica Gesù di guarire il proprio figlio preda di uno spirito muto che, quando entra in azione, dà luogo a manifestazioni che i moderni definirebbero epilettiche: il ragazzo schiuma, digrigna i denti, si irrigidisce. Il padre chiede aiuto a favore di una creatura incapace di farlo in proprio. Il Vangelo è pieno di grida di chi chiede la propria guarigione. Non però in questo episodio, dove il soggetto è colpito nella sua stessa capacità di domandare. Il mutismo del figlio obbliga il padre a parlare. Impotente a soccorrere in proprio, il genitore domanda aiuto ad altri. In un primo momento  si rivolge ai discepoli di Gesù ma essi falliscono, allora interpella direttamente il Maestro; quest’ultimo gli risponde duramente, tacciando di incredulità la propria generazione. Nel dialogo successivo il padre, rivolgendosi al Maestro, dice: «“Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile a chi crede”. Il padre del fanciullo disse ad alta voce: “Credo, aiuta la mia incredulità (apistia)”». Dopo questo scambio di battute avviene la guarigione (Mc 9,14-29).

     I discepoli non sono in grado di guarire, Gesù invece risana; ciò comporta che in lui è fortemente presente quanto nei suoi seguaci è latitante: la fede. A tal proposito Walter Kasper ha affermato: «Qui la fede viene […] considerata partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come capacità di ridonare salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano dovremmo convenire che soltanto Gesù è “colui che crede” e che solo in forza della sua “fede” è capace di sanare» [1].

     Il senso di queste non recenti parole di un illustre teologo e cardinale appare assai più prossimo ai modi indiretti in cui papa Francesco presenta – a credenti e non credenti – la figura di Gesù di quanto non lo siano le speculazioni ratzingeriane.  Siccome è anche un suo compito, coltiviamo la speranza che, a tempi non troppo lunghi, in papa Bergoglio l’insegnamento dottrinale esplicito si conformi a quello che si ricava dal suo magistero implicito.

Piero Stefani




[1] W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1975, p. 150.

440__Francesco, Benedetto e Gesù (07.07.2013)ultima modifica: 2013-07-06T09:14:08+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo