427__Esistenza e fede (07.04.2013)

Il pensiero della settimana, n. 427 [1]

 

 

Le parole che seguiranno avranno un taglio esistenziale, intendono infatti parlare proprio dell’esistenza. C’è un dato fondamentale nella fede cristiana che ha due facce: tutti nasciamo ma nessuno nasce cristiano. È la fede ad affermare che non si nasce cristiani. Si diventa cristiani ma non si nasce come tali. Ciò implica sia la riflessione sul nascere sia quella sul divenire credenti.

Parlare del nascere è un tema molto complesso nel caso in cui si volesse affrontare il ventaglio di  modalità che si trovano dietro a una determinata nascita. Ma c’è anche un fatto ovvio (e le ovvietà, ogni tanto, vanno ribadite): nessuno sceglie di venire al mondo, “altri” hanno deciso per lui, hanno scelto di far venire alla luce qualcuno ma non sanno chi; non possono stabilire chi verrà al mondo e come sarà la sua esistenza. È un dato esistenziale che neppure lo sviluppo della tecnica può esorcizzare fino in fondo.

Altra caratteristica ineliminabile è il fatto che ogni essere umano nasce con diritti fondamentali. È convinzione comune che ogni uomo nasca dotato di ragione e di coscienza (cfr. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Tra le strutture fondamentali dell’esistenza  c’è però anche, aggiungiamo, la constatazione che ogni essere umano nasce bisognoso di aiuto. Se non si instaura una relazione nessun vivente sopravvive. Il rapporto con l’“altro” è indispensabile perché chi è nato cresca. Siamo di fronte a un dato basilare che fa parte integrale dell’esistente. Si tratta di una dinamica universale che vale per tutti «senza distinzione alcuna» – come recita la Dichiarazione universale –, «di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».

Che rapporto c’è tra fede e nascita, visto che è la seconda ma non la prima a essere universale? In molte tradizioni non c’è difficoltà ad affermare che si nasce membri di una determinata comunità religiosa. In questi casi per religione si intende una componente inestricabilmente intrecciata con una società e con una cultura. Si nasce cioè appartenenti a una religione allo stesso modo in cui si è membri di una famiglia. Non bisogna andare molto lontani dall’orizzonte biblico per averne un esempio: l’ebraismo definisce ebreo chi è nato da madre ebrea. Quindi non si sceglie di essere ebrei (a meno di non essere dei convertiti all’ebraismo). Nel regime di cristianità le cose si presentavano in modo analogo.  Se così si potesse dire, i cristiani consideravano se stessi come dei “nuovi ebrei”. Basti pensare a un’espressione come «terre cristiane». Il nascere in un determinato territorio definiva di per sé  anche l’appartenenza religiosa.

In verità, teoricamente, non è stato mai negato che cristiani si diventa e non si nasce, ma nei comportamenti la faccenda era diversa. Nella ricerca storica i dati demografici di epoche passate si ricostruiscono attraverso i registri del battesimo.  Gli archivi parrocchiali sono fonti attendibili in quanto tutti venivano battezzati subito dopo la nascita. L’essere cristiani costituiva un’appartenenza. Tuttavia è anche vero che si veniva sollecitamente battezzati proprio perché c’era differenza tra nascita e appartenenza di fede: senza battesimo si finiva all’inferno o al limbo, comunque si era destinati a una sorte non felice.  La nascita, di per sé, non bastava ad essere cristiani. Tuttavia la distinzione funzionava per l’aldilà, ma non per l’aldiquà dove nascita e appartenenza religiosa si toccavano.

Questo è un tema che – per usare il linguaggio ecclesiale – si esplicita nel problema della cosiddetta trasmissione della fede. Al giorno d’oggi essa non è più così lineare; a essere mutata è, in larga misura, la stessa forma mentis dei genitori. La si può sintetizzare in queste battute: «deciderà lui (o lei). Perché prendere noi il suo posto?». Va però anche precisato che, senza una trasmissione di contenuti e racconti relativi alla fede, nessuno si troverà nelle condizioni, neppure in futuro, di scegliere l’una o l’altra direzione.

C’è un’obiezione scettica (nel senso proprio del termine) che suona così: si fanno questi discorsi sulla trasmissione della fede cristiana perché si è in Italia. Sei cristiano perché sei nato qua; se fossi venuto al mondo in Arabia Saudita saresti certamente musulmano, se fossi nato in India probabilmente induista. Obiezione, nel suo ambito, imbattibile. L’appartenenza infatti dipende dalla casualità del luogo di nascita. Per la religione varrebbe, quindi, quanto vale per la lingua madre: anche se si è un poliglotta la lingua nativa resta quella, così anche per l’appartenenza religiosa che  è  come un’ombra che ci avvolge. Una riposta a questa obiezione la si può trovare solo dentro la fede. Là è dato di affermare: è stato proprio Dio a volere che nascessi qui. Fuori della fede, va da sé, questo tipo di risposta non è affatto convincente.

Nel caso in cui non si venga al mondo in terre cristiane la fede ha poco a che fare non solo con la nascita ma anche con l’imparare un linguaggio. Ma le cose stanno sempre più così anche dalle nostre parti. Del resto se la fede fosse riconducibile all’educazione sarebbe qualcosa di umano, di troppo umano; sarebbe solo una tradizione culturale, per quanto nobile. La fine della cristianità è un’occasione epocale per riscoprire in occidente il proprium della fede per la quale valgono sempre le parole rivolte da Gesù a Nicodemo nel IV Vangelo: «Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,7).

 

Piero Stefani




[1]Riprendo e rielaboro la prima parte di una conversazione tenuta a  Campobasso il 9 marzo 2013.

427__Esistenza e fede (07.04.2013)ultima modifica: 2013-04-06T07:14:00+02:00da piero-stefani
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