403_Un santo contagio (21.10.2012)

 

 

Un santo contagio

 

     Il card. Martini ha scelto per la sua tomba questa frase  biblica:  «Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). È un versetto tratto dal più lungo tra tutti i salmi, una composizione interamente incentrata sull’amore per la Parola e la Legge di Dio. Il salmo ha una struttura alfabetica. Ogni strofa è caratterizzata da una lettera dell’alfabeto posta in successione: si inizia con l’alef e si termina con la tau. Quello espresso dal salmo è un amore paziente e disciplinato che si muove secondo regole autoimposte. Lì c’è non la spontaneità dell’affetto, bensì il rigore del procedere. Le lettere sono tutte presenti, simbolo di un amore che – per indulgere a un lessico contemporaneo – potremo definire totalizzante. Per l’autore del salmo la parola di Dio è  tutto.

     Il nostro verso dà  inizio alla strofa contraddistinta dalla lettera nun. La prima parola è infatti ner. È lo stesso termine con cui si indicano i lumi che costituiscono i sette bracci della menorah (il candelabro del santuario, cfr. Es 39,37; 40,4). Luce (’or) rimanda invece alla prima di tutte le opere di Dio (Gen 1,3). Una traduzione letterale del verso suona così: «lume ai miei piedi la tua parola e luce alla mia via». A predominare è una componente dinamica. Essa è polarizzate in due direzioni: una legata all’organo del camminare (i piedi), l’altra allo spazio su cui si cammina (la via). Tutte e due le componenti si rapportano alla dimensione luminosa, ma lo fanno in modi diversi; per i piedi si tratta di lume (o lampada), per la strada ci si deve riferire alla luce.  La lampada è opera umana, la luce è divina. Per camminare nella parola occorre impegno, studio, ricerca;  a monte di tutto ciò deve però esserci un ascolto obbediente. Il lume è umano, ma all’origine vi  è  un realtà che viene da Dio.  Dice un altro salmo: «Signore, tu  dai luce  al mio lume » (Sal 118,29).

     L’incontro pieno con la Parola ha luogo quando il lume del camminare umano si inoltra sulla strada illuminata dalla luce divina. Quello che fu vero all’origine resta tale anche per chi studia la parola: il divino e l’umano sono distinti eppur congiunti. Come afferma la Dei Verbum (n. 11) per far giungere a noi la parola della Scrittura Dio scelse e si servì di uomini in pieno possesso delle loro facoltà e capacità che agirono da veri autori. A differenza di quanto ritengono i fondamentalisti, gli agiografi  non furono semplici scribi operanti sotto dettatura. Allo stesso modo si può sostenere che chi studia la Scrittura in virtù della sua lampada è vero interprete. Il lume non è la luce, è più piccolo e fragile, eppure è in grado di restare acceso anche quando si cammina nel buio.

     Nel 1993 Carlo Maria Martini celebrò a Reggio Emilia gli ottanta anni di Giuseppe Dossetti. In quell’occasione tenne un discorso («Esegesi, lectio divina e omelia» ora in Non date riposo a Dio, Il Regno-EDB, Bologna 2012) che terminava con queste parole: «Ci doni il Signore di tenere davvero la Scrittura come un bambino in braccio, con affetto e riverenza, affinché la sua Parola sia sempre “lampada per i nostri passi e luce per il nostro cammino”». Egli, riferendosi al salmo, lo cita liberamente e pone un «nostro» al posto di un «mio». Difficile pensare che non sia stata una modifica consapevole. Martini è stato un «servitore della Parola» per antonomasia. Che altro significa essere tali se non far si che il «mio» diventi «nostro»? Quando fu chiamato improvvisamente a capo della diocesi di Milano senza avere alle proprie spalle alcuna esperienza episcopale, Martini si pose il problema di come agire. Una delle sue prime scelte fu di iniziare da quello che sapeva fare. Nacque così «la scuola della Parola». Subito migliaia di giovani riempirono il duomo cosicché con il tempo si dovettero trovare altri spazi. Fu una vera e propria «rivoluzione pastorale». Il «mio» cominciava a diventare un «nostro».

     Perché un simile processo giunga a compimento occorrono alcune condizioni, la principale delle quali può, forse, essere indicata con la qualifica di «santo contagio». Che significa? Si tratta di un «nostro» che si forma perché sono coinvolti in modo diretto i singoli che ricercano la Parola e la meditano in cuor loro e che proprio per questo sentono il bisogno di entrare in relazione con gli altri. Non si tratta del «noi» compatto dell’appartenenza identitaria. Siamo di fronte piuttosto a un «noi» mite che si forma in quanto passa da persona a persona. Ciò non toglie che la diffusione nasca dal qualcuno che per primo ha subito (e in questo caso anche voluto) il «santo contagio».

Piero Stefani

 

403_Un santo contagio (21.10.2012)ultima modifica: 2012-10-20T17:00:48+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo

Un pensiero su “403_Un santo contagio (21.10.2012)

  1. C’è da riflettere davvero sui tanti “noi” che avvertiamo pronunciare e che pronunciamo. Si tratta di un pronome insidioso, che può includere, ma anche escludere al tempo stesso. Così come il passaggio dal “mio” al “nostro”, troppo spesso risolto e assunto frettolosamente: un’ennesima potenziale semplificazione. Grazie per aver evidenziato il concetto di “santo contagio”. Forse potremmo affermare che se non diventeremo anche noi “servitori della Parola” non entreremo nel Regno dei Cieli.
    Alessandra Chiappini

I commenti sono chiusi.