397_Il “non so” del card. Martini

Il pensiero della settimana,  n. 397

  

Vi sono due esperienze comuni nella vita di ciascuno. La prima è di non saper motivare fino infondo sul piano argomentativo le scelte qualificanti della propria esistenza, la seconda è di sperimentare le conseguenze impreviste di alcune decisioni liberamente e consapevolmente assunte. Se si domandano a ciascuno di noi le motivazioni profonde del perché sia credente o agnostico, del perché abbia sposato quella determinata persona, del perché abbia scelto quella determinata professione  e così via, dalla bocca uscirebbero certo parole, tuttavia si resterebbe nell’intimo, in parte, insoddisfatti; avverrebbe qualcosa di simile a quel che capita quando si racconta un proprio sogno: anche quando si vuol essere precisi si avverte che qualcosa ci sfugge; il discorso resta al di sotto delle immagini. Allorché si prendono decisioni fondamentali per la propria vita si è consapevoli di non poter controllare la distesa del possibile che ci si squaderna davanti, si ignora però quali specifiche situazioni prenderanno effettivamente piede e se, per caso, irromperà una di quelle che vanifica alcuni presupposti di fondo della scelta compiuta.

Dieci anni fa, al termine del suo lungo mandato episcopale, Carlo Maria Martini comunicò la propria volontà di trascorrere a Gerusalemme gli ultimi anni della sua vita. Quella città avrebbe dovuto essere anche il luogo della sua sepoltura. Si trattò di una scelta qualificante. Essa suscitò non poco sconcerto in molti di coloro che vedevano la grande guida spirituale allontanarsi dall’Italia.

Parlando a Efeso il 18 giugno 2002, nel corso di un pellegrinaggio diocesano, Martini commentò di persona la scelta da lui compiuta. Nel farlo espresse la propria incapacità di motivare in maniera conveniente la decisione già assunta: «Tante volte mi è stato chiesto negli ultimi mesi: perché vuole andare a Gerusalemme, una volta terminato il suo ministero a Milano? E ho risposto: non lo so. Vado “avvinto dallo spirito”, come dice Paolo, mosso interiormente dallo Spirito Santo. Mi pare quindi di partecipare molto fortemente ai suoi sentimenti e di viverli nel cuore. E vado senza sapere ciò che mi accadrà. Nessuno sa che cosa può accadere a Gerusalemme dove avvengono tante cose dolorose e strazianti» (C.M. Martini, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2002, p.11).

Il riferimento biblico è al Paolo degli Atti degli apostoli (20,17-38). In quel passo  si afferma appunto che egli andrà a Gerusalemme «avvinto dallo Spirito (…) senza sapere ciò che gli accadrà». L’attualizzazione a cui alludeva il cardinale riguardava invece i giorni terribili degli attentati terroristici: poche ore prima era saltato in aria un autobus provocando la morte di una ventina di studenti. Nel riferire a se stesso le parole di Paolo, Martini pensava probabilmente che sarebbe potuto capitare anche a lui di essere casualmente colpito da qualche strumento di morte mentre si trovava per le strade della «città santa».  L’eventualità  rafforzava in lui la convinzione che era bene abitare là dove il dramma della storia umana si fa più intenso e autentico.

Il Vangelo di Luca rimarca con forza il momento di svolta dell’itinerario fisico e spirituale di Gesù. Ciò avviene evocando la figura del «servo del Signore» che indurì il proprio volto (Is 50, 7). Così fece anche Gesù quando si mise in cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51). Giunto là sapeva che sarebbe dovuto morire. Il racconto lucano non lascia spazio a incertezze: «Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua il cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme» (Lc 13,33).

In quel frangente della sua vita Martini guardò però non già al Vangelo bensì all’altra opera di Luca, gli Atti, in cui il rapporto di Paolo con Gerusalemme è contraddistinto da una nota meno sicura: in quella città non si sa cosa possa accadere. Sembra tuttavia di capire che l’animo del cardinale allora, per quanto insicuro del modo in cui sarebbe morto a Gerusalemme dove «avvengono tante cose dolorose e strazianti», non avesse messo in preventivo che proprio la sua malattia sarebbe stata la causa maggiore che gli avrebbe impedito di chiudere per sempre gli occhi nella città alle cui porte Gesù gridò «Elì». Il dilagare progressivo del Parkinson e la crescente necessità di essere accudito hanno, invece,  spinto Martini a ritornare in provincia di Milano. In modo inatteso la sua parabola finale si è consumata in terra ambrosiana.

Per chi ha studiato filosofia Gallarate evoca i volumi, più volte consultati, dell’ Enciclopedia filosofica. Per chi è più addentro nelle questioni accademiche richiama anche l’Aloisianum, vecchia sede della Pontificia Facoltà di Filosofia (dove studiò anche il giovane Martini). Tutto questa è storia passata: la Facoltà è chiusa da decenni e ora il Centro studi di Gallarate, scombinando un poco gli orientamenti geografici, ha sede a Padova. La decrescita numerica e il progressivo invecchiamento dei gesuiti italiani hanno indotto a trasformare la sede dell’Aloisianum in casa di riposo per i membri anziani dell’ordine. Là Martini ha trovato la sua «residenza assistita».  Al pari di Ignazio di Loyola – in altre circostanze da lui esplicitamente citato a questo riguardo – Martini avrebbe desiderato vivere e morire a Gerusalemme. La crescente debolezza sua e della Compagnia di Gesù nel suo insieme lo hanno condotto invece  a morire  lontano dalle mura di Gerusalemme e prossimo ai luoghi in cui fu pastore.  Tuttavia proprio questo reditus, che appare per più versi come un fallimento, è inscritto più profondamente nella paradossale logica salvifica della croce di quanto non sarebbe stato un congedo dalla vita terrena avvenuto nella città di Davide. L’ininterrotto pellegrinaggio alla sua salma ospitata nel Duomo di Milano è stato il segno pubblico di quanto la sua figura e la sua opera abbiano inciso in terra ambrosiana.

Piero Stefani

397_Il “non so” del card. Martiniultima modifica: 2012-09-08T11:03:59+02:00da piero-stefani
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