376. Tradurre l’intraducibile

Pensiero n. 376

 Due prigionieri si trovano in celle attigue. Uno spesso muro li separa e vieta loro di incontrarsi. Tuttavia i due carcerati comunicano reciprocamente battendo con  pugni regolari sulla parete: ciò che li separa diviene un mezzo per relazionarsi. L’immagine la si deve a Simone Weil che la impiega per profonde riflessioni mistico-metafisiche. L’efficace bellezza del paragone consente però di applicarlo a molte altre situazioni, compresa l’arte del tradurre.

Passare da lingua a lingua, da cultura a cultura non comporta abbattere muri, significa renderli comunicanti. Se cade la distanza la traducibilità è ingannevole; allora vi è solo l’illusorietà della con-fusione. Quando si traduce occorre trasmettere l’alterità dell’originale, vale a dire, bisogna comunicare proprio quanto si sta cercando di superare. Ciò è particolarmente vero allorché  lingue e culture sono, in principio, molto lontane tra loro, quando, cioè, suoni e grafie contraddistinguono universi che sembrano destinati a non toccarsi mai. Il fatto che si possano battere colpi sul muro e che quanto separa riesca a mettere in qualche modo in relazione diviene, allora, motivo di vero conforto. La volontà di comprendere e di capirsi si trasforma in un valore fondamentale. Tradurre è un compito etico. Lo è quando la distanza non annulla la comunicazione e viceversa. Allora una intraducibilità parziale diviene il baluardo contro l’illegittima volontà di impossessarsi dell’altro; ma, nel contempo, essa diventa anche denuncia dell’angustia insita in ogni pretesa di autosufficienza.

Il dialogo è arte difficile, per questo è indispensabile. Esso riguarda ogni società, ogni succedersi di generazioni, ogni decisione collettiva che non gode di unanime consenso. Se non si avverte questo pungolo si dischiude la porta alla violenza. All’inizio potrà trattarsi di una piccola fessura, alla fine tutto il portone sarà spalancato. In Italia, in questi giorni, l’esemplificazione più immediata di ciò è costituita dalla TAV di Val di Susa. Per dialogare occorre ascoltare e per ascoltare bisogna essere disposti a ridiscutere. Non è detto che alla fine si debba rimangiare la decisione presa. Quanto è richiesto è prendere in considerazione le ragioni autentiche del pro e del contro. Ciò implica che ragioni ci siano. L’apparente apertura a ogni opinione è via insidiosa. Se è  violenta la chiusura che impone, dall’alto, l’uniformità, altrettanto pericoloso è il confronto che, in linea di principio, tutti uguaglia e sul piano dei fatti fa invece prevalere chi è più forte. Pur essendo obbligati a porre le debite distinzioni, ciò ha luogo nell’ambito della repressione, delle istituzioni, della persuasione massmediatica. Lo sapeva già Platone (che non a caso espresse la sua filosofia in forma di dialoghi): dove non c’è appello alla ragione che si esplica in ragioni a prevalere è sempre e solo il più forte.

Cercare di tradurre quel che, in senso proprio, è intraducibile è un’attività culturale che ha immediate ricadute civili; essa allarga gli spazi di quella che oggi si definirebbe una «buona pratica». Per il mondo occidentale, da secoli, un riferimento qualificante in quest’ambito è costituito dall’islam. Su questo fronte, da sempre, non è possibile attuare sconti. Ciò vero a iniziare dal riferimento fondamentale costituito dal Corano. Oggi ogni persona consapevole del tempo in cui vive è chiamata a conoscerlo; tuttavia, quando ci si accosta a esso leggendo qualche traduzione, ci si accorge subito dell’esistenza di un muro di separazione e di comunicazione posto tra noi e il testo. Anzi l’accuratezza della traduzione e del commento si potenziano quanto più comunicano la natura parafrastica del loro operato e indicano la raggiungibilità del proprio oggetto.[1] Esse devono comunicare l’incomunicabile,  vale a dire devono rendere percepibile che, secondo il suo etimo, Quran significa  recitazione.  Solo se si è partecipi, dentro e fuori se stessi, di un universo linguistico arabo si è nelle condizioni di cominciare a lambire il più autentico messaggio coranico.

Pur nell’ovvia diversità dei contesti, la portata universale del messaggio del Corano e l’unicità intraducibile della sua forma linguistica sono paragonabili all’universalità dell’azione salvifica di Gesù Cristo e al suo essere ebreo di Galilea vissuto in un determinato tempo e luogo che compì gesti (compreso il suo memoriale consegnato al pane e al vino) comprensibili solo in quella determinata cultura. Quando l’eterno irrompe nel tempo il paradosso è di casa. Rispetto al Corano la parete che divide le due celle è decorata di caratteri arabi; i colpi però sono uditi e non visti. Merita una perenne attenzione il fatto che proprio la civiltà che ha raggiunto esiti di ineguagliata bellezza nella calligrafia abbia affidato alla voce umana la massima capacità di comunicare il divino. La mano cede il primato al petto, alla gola, alla lingua, alle labbra, al naso, i cinque principali luoghi di emissione dei suoni minuziosamente descritti dalla disciplina coranica detta tajwid. Leggere una traduzione e pensare di essere in grado di giudicare la fede musulmana in base ai contenuti così appresi (operazione peraltro frequente sia in passato, sia nel presente) equivale a emettere giudizi privi di discernimento.

Il turismo, troppo spesso manifestazione palese di incomprensione dei luoghi da esso raggiunti, mette molte persone a contatto con mondi diversi dai propri. Per chi ha gli orecchi perennemente occupati da cuffie e adusi al rumore (e tra essi ci sono anche giovani musulmani), la voce di richiamo alla preghiera percepibile nei paesi islamici, in genere, produce  noia. Se, però, si dischiudono mente e cuore all’ascolto, l’atteggiamento subito muta, e ciò avviene  anche se non si capisce il senso delle parole.  Allora è dato di udire i colpi sulla parete. Nelle notti di ramadan nell’aria bruna si diffonde il canto del muezzin che chiama alla preghiera: aprire la finestra e fare entrare quella voce (sia pure, con ogni probabilità, registrata) dice qualcosa di Dio. Nel buio giunge a noi l’invisibile.

Piero Stefani




[1] Si segnala, Il Corano,a cura di Alberto Ventura, traduzione di Ida Zilio-Grandi.Commenti di Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi e Mohammad Ali Amir-Moezzi. Mondadori, Milano 2010, pp  899,   € 20.00.

 

 

376. Tradurre l’intraducibileultima modifica: 2012-03-03T16:12:00+01:00da piero-stefani
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