368. Padre Onnipotente (08.01.2012)

Il pensiero del settimana n. 368

 

Il trascorrere delle età fa mutare la percezione di molte affermazioni. Le si ripete ancora, ma esse risuonano in modo diverso.

La prima proposizione contenuta nel Credo che qualifica Dio come Padre onnipotente creatore del cielo e della terra non ha creato, per molti secoli, alcun problema. A livello generale non lo ha fatto perché l’onnipotenza era da tutti collegata alla creazione. Chi altri se non chi può tutto poteva dar origine al sole, alla luna, alle stelle, alla terra e all’acqua, alle piante e agli animali e, infine, al genere umano? Chi se non l’Onnipotente avrebbe potuto creare dal nulla tutte le cose? I più dotti erano poi in grado di pensare anche all’originale termine greco, Pantokrator, colui che sostiene – kraton – ogni cosa. Quanto al termine “Padre” chi sapeva di teologia lo riferiva innanzitutto al Figlio (qui non stiamo recitando il Padre nostro) di cui il Credo parla subito dopo presentandolo come colui per mezzo del quale sono state create tutte le cose.

Il modo di sentire contemporaneo coglie invece la paternità di Dio, fin da subito, riferita anche a noi. Questo spostamento di asse fa nascere una domanda che, formulata prosaicamente (anzi, provocatoriamente), suonerebbe così: «ma che razza di paternità è mai la sua?». In termini aulici si direbbe che solleva il problema della teodicea, mentre, per dirla con Peter L. Berger, in quella affermazione si coglie subito una straordinaria tensione tra il sostantivo e l’aggettivo a  esso riferito. Dio, secondo le nostre esperienze, «usa il suo potere in maniera assai parsimoniosa».  Come tener assieme  da un lato paternità e potenza divine e dall’altro le sciagure di cui è piena la terra?

Vi è un altro celebre inizio di un testo di fede: «Altissimu, onnipotente, bon Signore». Francesco, quando pensava alla creazione, replicava al dualismo dei catari che valutavano in modo negativo tutto il mondo materiale. Probabilmente  per questo l’inizio del Cantico di frate Sole è contraddistinto dall’aggettivo «bon». Tuttavia un moderno, se scrivesse un simile verso, sarebbe tentato di vedere nella qualifica di «altissimu» un equivalente di «incomprensibile» riferito al suo essere contemporaneamente onnipotente e buono.  Di fronte alla misera condizione in cui giace tanta parte dell’umanità, l’interrogativo di come il Signore possa tener assieme le due qualifiche rimane senza risposta.

Per uscire dalla precaria dialettica tra sostantivo e aggettivo sì è scelto più volte di sostantivare il termine parlando di Onnipotente. Così facendo, si accantona a un tempo tanto la speculazione trinitaria quanto la teodicea. Ora lo sguardo è tutto rivolto alla potenza di Dio.

Avviene qualcosa di simile nei capitoli finali del libro di Giobbe (38-41). Se si considera la descrizione dell’azione di Dio creatore come una risposta alla domanda del perché il giusto soffra, lo sconcerto diviene inevitabile. In tal caso si deve per forza dar ragione a Ernst Bloch che giudicava Dio un faraone celeste che tenta di replicare a domande etiche attraverso divagazioni estetiche. Altro è il discorso se quei capitoli (negli ultimi anni fortemente rivalutati) sono orientati a evidenziare la sproporzione tra la piccolezza umana (e quindi anche il suo dolore) e la grandezza di un cosmo frutto dell’azione creatrice di Dio. Le misure allora divengono reciprocamente incommensurabili.

«Pantokrator, colui che sostiene». Il modo più appropriato per giudicare la qualifica di onnipotente è di vedere Dio, ancor prima che come principio di tutte le cose, come chi perennemente sostiene il suo mondo. Ciò equivale a sostenere  che l’universo, lasciato a se stesso, è contraddistinto da un’intrinseca tendenza ad autodistruggersi. Alla creazione non è dato di autofondarsi partendo dal nulla;  ad essa è però concessa la paradossale capacità di precipitare  verso il proprio annichilimento. Questi pensieri, che a qualcuno possono suonare stravaganti, sono, in realtà, la spina dorsale della visione cosmologica di Isaac Newton. Il suo celebre Scholium generale (in cui la parola Pantokrator è giudicata tanto qualificante da essere scritta in caratteri greci) prospetta un Dio non trinitario che signoreggia su una creazione posta sempre sul bilico del precipizio: «e affinché i sistemi delle stelle fisse non cadano l’uno sull’altro, a causa della gravità, Egli pose una distanza immensa tra loro». La legge che regola l’universo può trasformarsi in cagione di distruzione. L’onnipotenza dell’Uno si manifesta nel contrastare le dinamiche nichilistiche presenti nell’universo da lui creato.

La qualifica di «Colui che sostiene» in Newton è da prendersi alla lettera. Come scrisse a suo tempo Alexander Koyré: «il credo nella creazione diventa il fondamento della scienza empirico-matematica». Spingendo il discorso all’eccesso, si potrebbe affermare che la Philosophia naturalis principia mathematica è una di specie di riscrittura scientifica di alcuni versi del libro di Giobbe  i quali (proprio come fa la legge della gravitazione universale) collegano tra loro cielo e terra: «Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi /e sciogliere i vincoli di Orione? Puoi tu far spuntare a suo tempo le costellazioni / e guidare l’Orsa assieme ai suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo / e ne applichi le norme sulla terra?» (Gb 38,31-33).

Chi signoreggia può anche distruggere; appunto questo, alla fine, farà il Dio di Newton. Ci chiediamo: vi è un modo diverso di guardare al Pantokrator? Si può evitare di porre l’accento sulla signoria anche se si è consapevoli del fatto che la realtà corre il rischio di cadere nel nulla? La risposta è affermativa. Circa tre secoli prima di Newton si alzò una voce veggente che, consapevole della precarietà di tutte le cose, trovò non nel dominio ma nell’amore la ragione della loro non estinzione: «E mi mostrò una piccola cosa, grossa quanto una nocciola, che stava nel palmo della mia mano, così mi sembrava ed era rotonda come una  palla. La guardai con l’occhio della mia intelligenza e pensai: “Cosa mai può essere?”. E mi fu risposto così: “È tutto ciò che è creato”. Mi chiedevo con meraviglia come potesse durare, perché mi sembrava che si sarebbe in fretta ridotta al nulla, tanto era piccola. E alla mia mente fu risposto;: “dura e durerà per sempre, perché Dio l’ama; e così tutte le cose ricevono il loro essere dall’amore di Dio» (Giuliana di Norwitch, Libro delle rivelazioni).

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

368. Padre Onnipotente (08.01.2012)ultima modifica: 2012-01-07T06:05:00+01:00da piero-stefani
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