364. La chiesa dell’anticoncilio (11.12.2011)

Il pensiero della settimana, n. 364[1]

  

L’intesa tra l’attuale governo della Chiesa cattolica e la Fraternità Sacerdotale di s. Pio X (i seguaci di Lefebvre) è favorita dal comune giudizio negativo su determinate applicazioni del Vaticano II. Specie in alcuni ambiti, a cominciare da quello liturgico, il sentire di Benedetto XVI e quello dei lefebvriani ha larghe zone in comune. Su altri settori, ecumenismo, dialogo interreligioso, libertà di coscienza, il fossato è assai più ampio. Tuttavia il discorso è anche più globale. Papa Ratzinger non può, né vuole, respingere il Vaticano II; la fedeltà a esso è richiesta dall’idea stessa di Tradizione e di papato. Egli perciò è obbligato a muoversi  nell’ambito dell’ermeneutica conciliare e non già di una decisa condanna del Vaticano II. Ecco perché l’accordo tra le due parti, allo stato attuale, appare lungi dall’essere conseguito. Le due precondizioni da sempre richieste dalla Fraternità, la messa di s. Pio V (secondo il messale del 1962) e la revoca della scomunica, sono state concesse, ma tutto il resto è ancora irrisolto. Non solo, proprio i modi legati al ripristino della «messa di sempre» evidenziano tra le due parti un modo di procedere inconciliabile. La Fraternità sostiene che quella messa, impregnata di teologia sacrificale, sia l’unica valida. L’aureo principio «lex orandi, lex credendi» obbliga perciò a respingere la messa «protestantizzata» nata dalle applicazioni del Vaticano II. Di contro, Benedetto XVI sostiene la compatibilità dei due riti; il Vaticano II, infatti,  non ha compiuto alcuna rottura con tutto quanto lo precedeva. Val la pena di ricordare però che, al riguardo, Paolo VI la pensava in modo opposto. Al suggerimento dell’amico Jean Guitton di permettere in Francia il messale di s. Pio V, papa Montini  rispose: «Questo mai […] Questa messa detta di san Pio V, come la si vede a Ecône, diviene il simbolo della condanna del concilio. Ora io non accetterò mai, per nessuna circostanza, che si condanni il concilio per mezzo di un simbolo. Se venisse accolta questa eccezione, il concilio intero ne sarebbe intaccato. E di conseguenza l’autorità apostolica del concilio» (122).[2] L’indagine sulla messa non rappresenta l’unico centro della questione e tuttavia, rispetto a qualsiasi altra esemplificazione, essa assurge a un livello più compiutamente simbolico.

Per quanto sui mass media sia passata in questi termini, la questione legata al Summorum Pontificum non riguarda la messa in latino. Ovviamente nella liturgia quella lingua è sempre stata in uso e a tutti è lecito impiegare la versione latina del messale di Paolo VI. Il cuore del problema sta, invece, nel rendere legittima, accanto a quella nata dalla riforma liturgica frutto del Vaticano II, anche la messa contenuta nel messale del 1962. Gli orientamenti e le sensibilità teologiche di Benedetto XVI lo conducono a proporre una lettura del Vaticano II in chiave di continuità e di riforma e a denunciare le interpretazioni che vedono nel concilio una discontinuità. Lo attesta appieno il discorso alla curia romana del 2005 (convenientemente richiamato molte volte dal testo di Miccoli) (cf. Regno-doc. ). L’ermeneutica della rottura, accreditata da Ratzinger all’ala «progressista», in realtà, è stata elaborata e praticata proprio dalla frangia tradizionalista: chi altri se non essa ha accusato il concilio di tradimento a motivo dei suoi cedimenti alle istanze della modernità?

Ratzinger tenta di attuare una specie di quadratura del cerchio, affermando che il Vaticano II in questo campo non ha eliminato nulla: si può, quindi, essergli fedele anche attenendosi a quanto era ad esso precedente. Per venire incontro ai tradizionalisti, Benedetto XVI nega la validità dell’ermeneutica di rottura da essi proposta sostenendo, semplicemente, che non c’è stata alcuna frattura. Secondo il Summorum Pontificum «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». La legittimazione del messale di s. Pio V diviene perciò una potente cifra per interpretare l’intero concilio: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». La logica della «riforma», trasformatasi in presunta giustificazione della continuità, diviene legittimazione dell’ibrido e di una facoltà, letteralmente inedita, concessa ai fedeli di scegliersi, a piacimento, il proprio rito. Si tratta di una linea di condotta debole rispetto all’istanza radicale avanzata  della Fraternità che, in nome della coerenza,  ragiona con la logica dell’aut aut e non  già con quella dell’et et.

Le pagine conclusive di Miccoli  indicano con molta nettezza la non recezione da parte dell’attuale pontificato di quella che è rappresentata come l’istanza più profonda del Vaticano II: il riconoscimento della storia. Il tema è riproposto a più riprese, anche in relazione alle «falsificazioni» della storia presenti in alcuni discorsi di Benedetto XVI (cf. 383-385). In proposito, un passaggio del libro, per quanto quasi incidentale, risulta particolarmente pregnante. Si tratta delle righe in cui si riporta un giudizio di Christoph Theobald in cui, in relazione al concilio, si parla dell’«entrata della coscienza storica nella tradizione». Miccoli lo commenta con le seguenti parole: «l’entrata della coscienza storica nella tradizione: detto in altri termini: il riconoscimento della storicità del cristianesimo!» (402). Per ricorrere a un’espressione particolarmente cara all’autore, questa equivalenza appare, in realtà, una «forzatura». Tradizione e storia restano due termini incommensurabili. L’autentica risposta ai tradizionalisti sta non già nell’appellarsi alla storicità, ma nell’indicare il carattere dinamico – o meglio aperto alla speranza – della Tradizione. La Chiesa dell’anticoncilio dimostra, senza ombra di dubbio, quanto poco questo registro sia stato richiamato nel replicare alle posizioni della Fraternità. In effetti, il carattere dinamico della tradizione è richiamato nella stesso motu proprio, Ecclesia Dei adflicta che indica il carattere incompleto della visione proposta da Lefebvre «in quanto non tiene conto del carattere vivo della tradizione» (170) e qui Giovanni Paolo II cita il n. 8 della Dei Verbum, che, aggiungiamo, va ritenuto, sotto ogni aspetto, una delle acquisizioni più alte dell’intero concilio. Tuttavia si è trattato di un magistero che, per quanto non del tutto dimenticato, non è stato sicuramente posto al centro delle applicazioni conciliari. Le spinte «progressiste» legate all’impegno nella storia e quelle «conservatrici» animate da un giudizio negativo sulla modernità si sono, paradossalmente, trovate concordi nel non sviluppare un’autentica riflessione sul senso più profondo dell’idea di tradizione. Questa lacuna è dotata di una grande incidenza  sia nel rendere incerte e titubanti le repliche vaticane ad alcune istanze di fondo avanzate dalla Fraternità sia, fatto ancor più rilevante, nello sviluppo di una matura ermeneutica del Vaticano II.

Va da sé che, per cogliere il senso della distinzione tra tradizione e storia, bisogna aver il coraggio di legittimare tutti gli ambiti propriamente soggetti a un approccio storiografico. In questa sfera ricade anche la storia della liturgia e del dogma. La «lex orandi, lex credendi» può rivendicare di essere «altro» dalla storia, solo nella misura in cui non ha paura di quanto emerge da una rigorosa indagine storiografica. Su questo fronte, però, la Chiesa cattolica sconta tuttora le violente scelte antimoderniste compiute proprio da quel Pio X eletto dalla Fraternità come suo protettore. Allora, per evidenziare gli indubbi limiti dell’approccio modernista, bisognava accoglierne alcune delle sue istanze più valide. Si sono invece respinti gli uni e le altre. Così  facendo si è anche irrigidito il concetto di Tradizione, impasse che, in sede ecclesiale, è ormai impossibile da sciogliere attraverso un semplice appello alla storia (cf. Regno-att. 16,208,560 ).

Piero Stefani

 

 




[1]  Anticipo la parte finale di una più ampia recensione che apparirà sulla rivista Il Regno a G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla conquista di Roma, Laterza. Roma-Bari,  pp. 420, € 24,00

[2] La citazione è tratta da J. Guitton, Paolo VI segreto, Edizioni s. Paolo, Cinisello Balsamo 1981, 144-145.

364. La chiesa dell’anticoncilio (11.12.2011)ultima modifica: 2011-12-10T06:00:00+01:00da piero-stefani
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