363. Dietro la sede della FAO

Il pensiero della settimana, n. 363

 

   Si racconta che anni fa ad un gruppo di seminaristi fu proposto, come esercitazione omiletica, di occuparsi della parabola del “Buon Samaritano”. I giovani si impegnarono nel preparare bei commenti. Al ritorno furono, a loro insaputa, sottoposti a un test. Un attore si finse ferito giacendo a bordo strada. La maggior parte dei futuri preti tirò dritto.

L’ironia in questo caso sarebbe risposta superficiale. Per comprovarlo basterebbe guardarsi allo specchio. Il non sostare di fronte al bisogno altrui è tratto comune della nostra quotidianità. Di solito l’omissione la si vede negli altri e la si cela a se stessi. Occorre piuttosto porre in evidenza il fatto che riflettere sul testo serve poco al fine dell’agire. A dirlo è, paradossalmente, la parabola stessa (Lc 10, 25-37). Essa prende lo spunto da una domanda connessa al precetto dell’amore per il prossimo (Lv 19,18). Come tutti sanno, in luogo di definire l’area di riferimento per chi vada considerato prossimo (il connazionale? Anche lo straniero? Ogni persona, senza limitazioni di sorta?), la parabola termina con l’invito a farsi prossimo. Si tratta, perciò, non di una condizione, ma di una relazione. Ogni individuo può essere estraneo o prossimo in base al rapporto che si instaura con lui. Quanto si sottolinea meno è la constatazione che il Samaritano non agisce affatto tenendo conto del comandamento. A indurlo a prestare soccorso non è il precetto biblico.

Il sacerdote e il levita videro e passarono dall’altro lato della strada; il Samaritano invece vide e gli si commossero le viscere (verbo, splanchnizomai), perciò agì. La differenza non sta nel vedere, che è comune; essa si trova nel lasciarsi turbare da quanto si vede. Vi è uno scorgere che equivale a un far finta di non vedere; vi è un guardare che ci tira fuori da noi stessi. La differenza è tutta qua. Il comandamento divino qui non c’entra nulla. Tutto è implicito. Nella patristica molte volte si è ripetuto che il Buon Samaritano è figura del Figlio venuto nel mondo per prestar soccorso a un’umanità ferita. Più attinente allo spirito della parabola è però affermare che in essa vi è una imitatio Christi tutta inconsapevole. A provarlo è proprio il verbo che fu del Samaritano (e del padre quando vide il figlio ritornare, Lc 15,20). Altrove, infatti, i Vangeli applicano il verbo splanchnizomai solo in relazione a Gesù (Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13). Il moto che pervade le viscere del Samaritano è identico a quello che fece fremere Gesù di Nazaret.

Tutto culmina nel vedere e nel commuoversi. Noi, invece, come gli antichi sacerdote e levita e i seminaristi dei nostri  giorni, per lo più,  fingiamo di non vedere e così  facendo mettiamo una preventiva saracinesca di fronte alla commozione.

A Roma, non lontano dalle terme di Caracalla, vi è un angolo di città che sembra trapiantato da una estrema, desolata periferia. Ci si imbatte in un brandello di terreno incolto e in viottole sterrate. Se le si percorre per un centinaio di metri si giunge a un piccolo slargo, umido e nascosto tra una vegetazione inselvatichita. Vi si scorgono vestiti stesi su stenditoi zoppi, un tavolo di plastica, sedie sfasciate e due capanne chiuse con teli di cellophane. Tutto lascia credere che siano alloggi di fortuna. All’improvviso ci si sente catapultati in una favela tascabile. Cinquanta metri più in là si intravede un piazzale e un edificio di enormi dimensioni. È la sede della FAO. L’accostamento assurge alla sfera del simbolo. Occultate dietro le piante, le due baracche non rappresentano alcun monito per funzionari e burocrati; di contro, per i pochi che le vedono simboleggiano l’impotenza delle istituzioni internazionali ad alleviare le enormi miserie del nostro pianeta; mentre per chi vi vive, o vi sopravvive, i precari ripari rappresentano, forse, qualcosa di meno peggio delle arcate di un ponte.

 

Piero Stefani

 

 

P.S. Un intervento apparso sul blog avanza dubbi sulla reale paternità dell’aforisma «L’ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero» attribuito a Oscar Wilde. Chiede perciò di conoscerne la fonte. Come spesso avviene, essa è di seconda mano e ciò aumenta il rischio che sia apocrifa. L’aforisma è riportato in  C. Rizzo, 101 modi per liberare il genio che è in te, Newton Compton Editori, Roma 2011,  p. 43.

 

 

363. Dietro la sede della FAOultima modifica: 2011-12-03T06:00:00+01:00da piero-stefani
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